Dove vado a infinire

 

Nel sogno dell’uomo che lo sognava, il sognato si svegliò.
(Jorge Luis Borges)

 


 


0. Prologo. Ovvero: who is the dreamer e perché proprio io?
Benché ogni tramonto sia carico di promesse e tutte le carezze che diamo contengano l’eternità, continuiamo ad addormentarci e ogni nostro saluto è sempre un addio. Lo stesso dal quale fuggiamo terrorizzati, lo stesso al quale rivolgiamo supplicanti le nostre preghiere, quando ci ritroviamo da soli nel buio, facciamo l’amore, ascoltiamo musica, passeggiamo tra le foglie, costruiamo famiglie, carriere, grattacieli, progetti, palafitte, shuttle, idee, o ci tagliamo i polsi con un rasoio.

1. Grandine per colazione
Che ci faccio qui? Chi è quello sconosciuto che mi guarda dallo specchio? Come si può comunicare una verità che è stata rivelata solo per me? Che cos’è il tempo? Che cosa c’è adesso che fino a ieri non c’era? Perché quelle mani, quei disegni, quei desideri, quegli sbagli? Perché ho paura? Che fine fa il mondo quando si chiudono le tende? Chi siamo? Chi chiamo? Chi amo? Un intero minuto di beatitudine è davvero poco? E quante vite ci sono in ogni vita? Di esistenza si muore? Perché io? Perché non io? Dove sei? Quale sorriso indosserò quando ci conosceremo ancora per la prima volta? Perché nell’aria c’è odore di treni esplosi nel deserto? Dove andremo a finire se continuiamo a iniziare così? Come si pronuncia l’indicibile e perché non facciamo altro? Fa più male uno schiaffo o una carezza che lascia la guancia per sempre? Quanti colori possono indossare i miei occhi? Che cos’è il sogno? Chi è il sognatore? Quanti fantasmi ci portiamo dentro? Esiste la realtà? Perché tutto questo, tutto il resto, tutto insieme? Quanti battiti di meraviglia ci sono in un attimo di ciglia? E gli stupori, le possibilità, le domeniche, i ricordi in sala d’attesa, le progressioni geometriche, questo impreciso momento, i dinosauri, tutti i per sempre che riesco a immaginare? Come ci si sveglia? Come si esce dal sogno? Che ci faccio qui? Sento le cose grandinare in continuazione dentro di me.

2. L’inevitabilmente buio mattino degli affetti da sogno
Il fatto è che dalla vita non se ne esce vivi. È un male incurabile. Una malattia irreversibile. Sapiens è un malato interminabile. È preda di angosce e fantasmi, che urlano nella notte e trascinano catene sporche di sangue, che tentennano nell’oscurità, la stessa di quella selva nella quale si compie l’esistenza: è nelle tremende e oscure trame del bosco, infatti, che si compie ogni nascita, è nell’oscurità del bosco che si trova la via che conduce verso casa (Holzwege, i sentieri interrotti di Heidegger). Non si può che nascere piangendo, urlando, tra scie di sangue e squarci di luce. Il primo risveglio, l’inizio del sogno. La fine di qualcosa che però non ha nome, perché appartiene anch’essa alla dimensione onirica, ovvero dell’immaginazione, ovvero del ricordo, del desiderio, del progetto, del destino, dell’eterno ritorno, dell’eterno andare. La vita che si sveglia. Ed è vero: nessuno sopravvive. Ma, come direbbe Kobayashi Issa, eppure. Il paradosso, l’ossimoro, la contraddizione, la metafora, l’ambiguità: la condizione umana. Attraversare da vivi la regione della morte, come Orfeo: la nostra condanna, la nostra salvezza. Vivere sentendosi vissuti, consumati, bruciati, come la più strabiliante delle poesie. Perché, forse, non è tutto già scritto, ma è tutto ancora scrittura.

3. Sono immerso nella tempesta e non so come uscire - forse perché non voglio
Voglio andare a casa. Voglio uscire da questo sogno, svegliami con un bacio che sa di oceano. Ma tu non ci sei, qui ci sono soltanto io, in questo che forse è un incubo, e credo di avere il controllo di tutto e invece sono soltanto un refolo di vento perduto nella nebbia. Dunque, quali elementi abbiamo per capire se siamo in un sogno, o in un sogno dentro al sogno, magari di qualcun altro? Non ci sono trottole, perché questo non è Inception. E non ci sono interruttori, perché questo non è Waking Life. E non ci sono fiammiferi, perché questa non è una pipa. Il fatto è che a un certo punto ti ritrovi senza nessun punto certo per il semplice fatto che non esiste alcun semplice fatto, d’altra parte dall’altra parte puoi stare al sicuro solo se sei sicuro di certe certezze ma soprattutto di alcune alcunezze. È un meccanismo di difesa, perché dobbiamo difenderci da amori che hanno la durata di una casa di paglia, da sogni che hanno la resistenza dei fiori dentro i temporali e perché molto probabilmente anche stasera usciremo sbattendo la porta. Ma voglio andare a casa. Bisogna uscire di qui, come si fa? Mi ci vorrebbe un sogno (ma dove lo trovo un cassetto  aperto a quest’ora?). Mi rifugio nelle profondità oceaniche del mio cuore vuoto pieno di mostri, mi ubriaco per mesi e mesi di cosmo e cosmesi, tutto pur di non ammettere che sono qui da solo, non trovo più la tua mano, è buio e pioggia e niente, ho paura, aiuto, cado
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nelfangogelidononhopiùspaziodoveseiletueditadinottechedisegnanoilfuturosullamiaschiena.

4. Poiché sono carne e tutto urla
Il sogno è il destino. E non c’è modo di saper se la vita è un sogno, un incubo, una bugia, una sala d’attesa, una ferita, una feritoia, una trincea, una lunga e interminabile storia d’amore. Ma non serve la verità, qualunque cosa essa sia, non ce ne è motivo. Non importa se è tutto vero o è solo dentro la mia testa che lo lascio esistere. Sono il sole, sono Icaro, sono acaro della polvere di quelle stelle che marciscono sul fondo del cuore. E anche se ogni volta che mi sveglio mi ritrovo sempre più lontano dalla mia casa, continuerò a cercarmi. Perché voglio perdermi ma per dirmi e per darmi. Perché la realtà è una immaginazione alla deriva, in tempesta, in fiore. Ed è per questo che
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nel blu sognante dove vado a infinire.