Vivarium

Io credo che il potenziale del film si dispieghi sul piano dell'analisi sociale e non su quello della lettura fantascientifica (oltremodo plausibile, ma a mio avviso semplicemente una metafora dentro la metafora – come i quadri della casa all’interno della casa).

Il film, in chiave allegorica, racconta della dicotomia società-individuo. Parla di famiglia, di stare al mondo, portando all'estremo - dal punto di vista concettuale e della messa in scena - certi assunti antropologici che ci definiscono come specie (la socialità; il tempo di neotenia; l'educazione; l'altro significativo e l'altro da sé; la dualità natura/cultura, maschile/femminile e quella razionale/irrazionale; ecc.) e certi elementi che attraversano il "mondo" - organico, metafisico e poetico - e il processo di definizione identitario (l'imitazione; la ripetizione; l'astrazione; la finzione; l'assegnazione di significato; ecc.).

La "società", un concetto spesso maltrattato e frainteso (come "natura", "tecnologia", "poesia", e altri), non è qualcosa di "esterno" all'individuo, anche se spesso viene intesa come un qualcosa quasi di tangibile, materiale, dotato di volontà ("ci impone", "ci obbliga") e immancabilmente con un'accezione negativa. Il discorso è lungo e complesso e non intendo annoiare nessuno. Direi però che il rapporto tra società (che esiste in natura) e individuo (che in natura non esiste) è lo stesso che intercorre tra le mani di Escher: chi disegna chi? L'una determina l'altra e viceversa, nello stesso momento, che dura per sempre.

Lo stesso per sempre a cui sono destinate/condannate le famiglie che vanno ad abitare a Yonder. E sembra proprio Escher l'architetto di questo micro mondo, che si erge verdeggiante (il colore di cui l’occhio umano coglie il maggior numero di sfumature) sotto un cielo che pare dipinto da Magritte. Ma questa non è una casa, così come quella non è una pipa (ma "facciamo finta di essere alberi", come dice Gemma a inizio film: e fare finta è l'unico modo che abbiamo, noi umani, di essere veri, autentici - parlo di quella finzione di cui hanno scritto Pessoa, Shakespeare e Pirandello, per esempio). E loro sono Lui e Lei: astratti, assoluti. Così come il loro amore che è l’Amore. Alla fine Tom dice, prima di morire tra le braccia della donna che ama, “io mi sento a casa anche adesso”. Secondo me è la frase più bella del film. La casa è l’amore, è il suo abbraccio. Casa è dove sto con lei.

C’è il rapporto genitori-figli. La madre (che esiste in natura), il padre (un’invenzione culturale) e il figlio: un triangolo dal sapore quasi trascendente, che in questo film si fa metafora di uno dei cambiamenti più catastrofici e radicali che ognuno di noi possa esperire: diventare genitore. Forse quel senso di “obbligo” di cui spesso si parla, a proposito del fare figli, è una semplice deriva di quell’imperativo biologico di prosecuzione della specie. E quindi dobbiamo “crescere il figlio per poter essere liberi”, parafrasando il messaggio presente sulla scatola che porta il figlio a Gemma e Tom. Ma sapiens è un animale strano. Sa di esistere, si pone domande, cerca alibi: in questo senso vedo l’accenno fantascientifico. Quello che accade è dettato da altro, non da me. Non è colpa mia. Tutti gli errori che ho commesso, le scelte sbagliate, le buche che scavo e che non portano da nessuna parte: non è colpa mia. Ecco, secondo me la lettura sci-fi potrebbe essere una metafora del fatto che noi umani abbiamo bisogno di raccontarci storie per scaricare la tensione dell’essere vivi.

E tantissimo altro ancora. Ma ho già delirato abbastanza. Adoro questo genere di film, così aperti, ambigui, densi e suscettibili di interpretazioni e letture differenti. Film che ti lasciano addosso segni con cui inevitabilmente devi fare i conti.

E Vivarium mi ha lasciato addosso una sensazione di inquietudine e angoscia, rabbia e malinconia, ma soprattutto un’irrefrenabile voglia di abbracciare la mia ragazza perché ho bisogno di sentirmi a casa.