Infinità

Un film che non è un film. Assomiglia di più a uno di quei racconti allegorici che gli antichi si raccontavano intorno al fuoco, e che avevano il fine ultimo di fornire ai membri della comunità gli strumenti – cognitivi, emozionali – per attraversare il bosco e tornare vivi a casa. La poesia, detto brutalmente, nasce così.
 
Ecco, Upstream Color si colloca su questa scia, quella della metafora e della metonimia, dell’allegoria e del simulacro, perché racconta qualcosa che è in realtà qualcos’altro ma soprattutto qualcosa d’oltre. 
Come in Primer, anche qui il livello della narrazione è articolato, complesso, difficile, a tratti inaccessibile – ma non c’è presunzione né sterilità in Carruth: come per Lynch, anche per lui la complessità della messa in scena è piegata alle richieste e alle necessità della storia, non c’è traccia di supponenza, o almeno io non ne ho visto.
 
E mi sono sentito sfidato, messo alla prova, disorientato, perso, ritrovato, abbandonato, solo ma soprattutto sole, perché c’è tanta luce in Upstream Color. Questo genere di film mi ha sempre affascinato. C’è una sola cosa che chiedo all’arte, in ognuna delle sue manifestazioni: travolgimi. Sommergimi, attraversami, fai franare la terra sotto i miei piedi, squarcia il cielo e fai collassare ogni universo. Ed è quello che cerco di fare ogni volta: fare mio il film (o il libro, il dipinto, la scultura, eccetera). Non amo le spiegazioni e le didascalie, adoro invece l’ambiguità, l’opacità, l’oscurità, “il vago e l’indefinito” (Leopardi), perché come Verlaine voglio “sfumature soltanto, non colore”.
 
Ma che cos’è Upstream Color?
Che storia racconta, e soprattutto “come”?
È una storia di vermi e di maiali.
Di fiori blu e pietre che rotolano.
Io credo che si tratti di una riflessione intorno all’incessante dialogo tra la parzialità che siamo e la totalità a cui aspiriamo.
È un film sulla memoria (ritorna la poesia, perché nasce proprio come mnemotecnica), perché forse quei maialini rappresentano – quasi come correlativo oggettivo – il “luogo” fisico dove risiedono frammenti di passato, in particolare gli eventi traumatici e catastrofici (quelli che, in un senso o in un altro, hanno determinato mutamenti profondi nel nostro essere al, e pensare il, mondo).
Quelle larve, prima inserite nella ragazza e poi da lei estratte e impiantate nel maiale, potrebbero raccontare proprio questo: la necessità (vitale?) di rimuovere certi ricordi, ma coi quali bisogna restare in contatto, non abbandonarli, perché è solo attraverso la rielaborazione del lutto (ogni tipo di lutto: la fine di un amore, la perdita della casa, del lavoro, la fine della scuola, un nuovo inizio) che si può dare un senso al passato, e quindi al futuro, e quindi al presente.
 
Lei e lui – e tutti gli altri, come si vede nel finale – hanno dovuto viaggiare in quell’inferno che è il proprio cuore ferito per poter, forse, in qualche modo, dare un senso al proprio cammino esistenziale. [...Una discesa orfica nel mondo dei morti, quelli che popolano la nostra mente, i fantasmi del passato e del futuro, del linguaggio, del verbo di Dio, del nostro assurdo stare al mondo...]. E lo fanno amandosi, tra un’infinità di timori e paura (proprio perché rimossi senza consapevolezza), purtuttavia tenendosi per mano, uniti contro il mondo (splendida la scena di loro due abbracciati nella vasca da bagno, con la pistola e dei viveri, come se l’apocalisse stesse arrivando e coinvolgesse soltanto loro due – che sono il cosmo intero).
 
C’è la natura, in tutti i suoi possibili sensi: quella fatta di alberi, fiori, vermi, fango, fiumi e la natura umana, qualunque cosa essa sia, che poi in realtà è ciò che dà senso alla “natura” e a qualunque altra cosa. Perché la natura (non solo quella umana) è tecnologi(c)a.
Quei suoni e quei rumori che vengono registrati, come se si fosse alla ricerca di qualcosa di primordiale, del respiro di Dio, sono il canto che ci portiamo dentro. Voglio dire, ci troviamo sul versante analogico dell’esistenza, ma noi siamo esseri digitali (la parola: il fantasma): siamo armonie di opposti, quasi in senso eracliteo, siamo pervasi da istanze egoistiche e violente e da istanze altruistiche e sublimi, siamo i nostri geni e siamo il libero arbitrio, siamo vermi insignificanti e siamo divinità onnipotenti.
Questa è la nostra condanna, questa è la nostra salvezza.
Ma poi accade che sul treno su cui viaggia la nostra vita, a un certo punto, incontriamo qualcuno, e riconosciamo nei suoi occhi il nostro stesso desiderio di mondo, il nostro stesso dolore, e allora accade: ci si innamora.
E con l’amore arrivano tutti gli altri mostri.
E allora scaviamo dentro di noi, con un coltello da cucina, perché sottopelle vediamo correre la larva che abbiamo dovuto ingoiare quando siamo venuti al mondo (la scena iniziale, forse, può essere metafora di questo: il venire alla luce, partoriti da una società della quale dobbiamo imparare tutto – perché si nasce sempre tra scie di sangue e squarci di luce, tra pianti e confusione, perché, come dice Wislawa Szymborska, “si nasce senza esperienza, si muore senza assuefazione”).
 
Insomma, Upstream Color, il mio Usptream Color, è una storia di identità in frantumi che tentano di ricomporsi. È un dialogo tra parzialità che anelano la totalità, tra la dualità del nostro essere umani e l’infinità del nostro essere divini. Precarietà esistenziale e necessità di ingannare la morte. Il bisogno di rimuovere e il bisogno di ricongiungersi con il rimosso. La possibilità folle di condividere la propria vita con qualcuno che –in mezzo al fango, sporchi di sconfitte e fallimenti, bagnati di speranza e timori – possiamo chiamare “amore mio”.
 
Usptream Color è un racconto di catastrofi, ovvero di momenti di rottura, di morfogenesi, di mutamenti di forma. Penso all’uomo che mette i maialini appena nati (dal maiale in cui è stato inserito il verme estratto dalla ragazza) in un sacco di iuta e li getta nel fiume, facendoli annegare (tra l’altro, questo evento scatena un senso di perdita e angoscia nella coppia, facendo sentire i due assediati da una forza impalpabile che è forse il senso di colpa, la sensazione di aver perso qualcosa di importante, forse per sempre).
 
Queste fratture, questi sbalzi quantici che frammentano l’istante e lo rendono eterno, sono gli attimi della scelta (vedi anche lo splendido Mr Nobody) – ma anche la scelta dell’attimo – sono i momenti in cui il sé si scinde, come ogni atomo, e genera traiettorie esistenziali ulteriori, innovative, altre. Quando la frattura deriva dall’orrore (perché abbiamo scelto di non scegliere, perché abbiamo taciuto o urlato troppo, perché abbiamo fatto o non fatto quella cosa, perché questo o quell’altro) allora il sé percorre sentieri di morte, sporchi di fango, e passiamo la vita nel recinto dei maiali, ma con la consapevolezza, dilaniante e insopportabile, dell’immensità del mondo che non vedremo mai, e che sarà sempre dentro di noi.
 
Upstream Color è tutto questo, o meglio: non è niente di tutto questo.
Questa è soltanto la mia storia, il mio viaggio intorno a una pietra che rotola.
Perché sono confuso e ho paura, è notte e sono da solo nel bosco.
E cerco disperatamente la poesia che mi indichi la strada verso casa.