Dopo quel grande splendore

 

 

 

 

La Vita sua sarebbe la Morte mia.

(John Keats)

 

 

 

 

-3. Dopo

In Paradise Lost, Satana a un certo punto dice: «non conosciamo nessun tempo in cui non eravamo come adesso». Non è un caso che Harold Bloom – nel suo prezioso e bellissimo L’angoscia dell’influenza – individui proprio nel Satana di Milton la sostanza del poeta moderno. Non intendo dilungarmi su questo. Sarò breve. Nella teoria di Bloom – che sposo pienamente – le relazioni interpoetiche sono fondamentalmente atti di revisione. Un continuo negare per affermarsi. Una guerra, tra il poeta emergente (l’efebo, lo chiama lui) e il suo precursore forte. E solo il poeta forte può vincere tale guerra, ma sarà un poeta forte solo se vince la guerra. La scrittura, quindi, non è altro che una condanna, o un’espiazione, un perpetuo partorire. E la storia – e la Storia – non fanno altro che ripetersi. Dalle caverne ai bordi del cosmo. Non conosciamo nessun tempo in cui non eravamo come adesso. Il poeta è colui che viene scelto, e la sua coscienza di essere eletto gli è una sorta di maledizione: l’uomo poetico porta dentro di sé un fantasma muto, insaziabile e specchio. Ma l’uomo poetico non è soltanto il poeta (forte). È lo scienziato, il tecnico, il medico, chiunque sia capace di trascendere il reale, di avvicinare l’oltre (Baudelaire), di colmare il vuoto (Brodskij), di abitare il nulla (Merini). Ovvero: metafora. Ovvero: guadare il fiume che ci separa dal futuro, dal sogno, dal mondo possibile. E tutto cambia. Il domani, la vita, la morte, le possibilità. E tutto si trasforma. I sogni, i timori, gli incubi, le speranze. Si segna il punto di non ritorno (che diventa tale solo a posteriori), si compie la catastrofe (morfogenesi) e niente sarà, è, era come prima. Perché non conosciamo nessun tempo in cui non eravamo come adesso. Solo che adesso abbiamo il potere di estinguerci, abbiamo la bomba, abbiamo rubato a Dio il potere (o condanna, o privilegio, o dono, o dolore) dell’apocalisse. Nietzsche lo aveva intuito: abbiamo ucciso Dio, solo non poteva sapere come. Lo abbiamo ucciso (come ogni creatura fa con il suo creatore) sottraendogli le sue prerogative, i suoi tratti distintivi: il suddetto potere di porre fine alla Storia, la possibilità di estinguere la specie umana, e lo sguardo da fuori (Boatto; Caramiello) – cioè la possibilità di vedere, attraverso i satelliti in orbita, il pianeta Terra nella sua globalità (la prospettiva divina, lo sguardo celeste). E abbiamo scisso e bombardato l’atomo. O meglio: l’ha fatto Robert Oppenheimer. E altri con lui, e altri prima di lui, e altri dopo di lui. Ma il poeta (forte), che ha vinto la guerra, è sempre solo (è sempre sole). Satana – l’uomo poetico in senso bloomiano – sa che la poesia comincia con la nostra consapevolezza, non di una caduta, ma che stiamo cadendo. E non dirà «Sono un uomo caduto», ma «sono uomo, e sto cadendo». Accade, per ogni uomo che cambia il futuro, costretto a fare i conti con le possibilità estinte e quelle create, con i problemi risolti e i dilemmi generati, con i mostri domati e quelli appena nati. Tutto questo papiello inutile per dire due cose: 1) l’unica certezza che abbiamo nella vita è la scelta (e siamo chiamati – sempre, in ogni momento, a ogni livello, dal più sciocco e tiepido al più straziante e potente – a compiere una scelta); 2) la libertà ha un prezzo. Il poeta, il fuoco, la bomba, le scelte. Niente è come prima, eppure non conosciamo nessun tempo in cui non eravamo come adesso. 

 

Quando tale coscienza di sé ha raggiunto un apice assoluto, allora il poeta precipita nell’Inferno, o meglio, cade in fondo all’abisso, dall’impatto col quale crea l’Inferno. Ora può dire: «mi pare di aver smesso di cadere; adesso sono proprio caduto; di conseguenza, eccomi all’Inferno» (Bloom, 2014, pp. 30-31).

 

 

-2. Quel grande

Il dovere della scelta. Facciamo di tutto per evitarlo. Ci piace essere sassi, e lasciarci scivolare addosso l’esistenza, ma siamo come gli atomi di Lucrezio: non possiamo che scontrarci di continuo. La vita è questa. Anzi: chest’è. Ma noi preferiamo scegliere di non scegliere, di lasciar fare agli eventi, perché abbiamo paura, perché siamo pavidi, perché così poi possiamo fingere ancora meglio la nostra estraneità alla vita. Ma la scelta è un dovere. Oppenheimer, in fondo, questo ennesimo film stupendo di Christopher Nolan, parla proprio di questo. E il tormento dell’uomo che ha contribuito in maniera determinante alla creazione della bomba atomica, a conti fatti, è il tormento dell’uomo che si assume le conseguenze della scelta. Quella più radicale e decisiva. E ci ha fatto il dono più grande che un essere umano possa fare a un altro: ci ha tolto il peso della scelta. E Truman, naturalmente. Premere un tasto, premere quel tasto. Sapere che l’inevitabile, a volte, è il proprio destino (che è una scelta, che è un caso, che è una necessità). E noi sappiamo che ci sono uomini a cui dobbiamo la nostra libertà, il nostro mondo. E siamo ingrati. Oppenheimer, Truman, Einstein, Teller, Fermi, ma anche Churchill, Turing, e tante altre persone, perlopiù sconosciuti, a cui dobbiamo più di quanto possiamo immaginare, certamente più di quanto siamo disposti ad ammettere. E non è mai facile, scegliere, anzi, è sempre doloroso. Soprattutto se sei Oppenheimer, o Truman, o semplicemente (difficilmente, pienamente) te stesso: e diventi un poeta forte. Perché non esistono pasti gratis. Perché la libertà ha un prezzo. Perché non è la morte, non è il dubbio: l’unica certezza è la scelta.

 

 

-1. Splendore

Oppenheimer è stupendo. Un’esperienza immersiva travolgente, con un sonoro che ti entra dentro, che martella e accarezza, allo stesso tempo. Un racconto che fa sua l’epicità del mito, senza cedere alle lusinghe della retorica ideologica, senza intenti morali educativi (l’esatto opposto di Barbie, per intenderci). Un viaggio nel cuore dell’uomo che era a capo del più grande gruppo di scienziati che sia mai stato formato. I suoi dilemmi, le sue scelte, le sue paure, i suoi tormenti, il suo genio, i suoi occhi. Il silenzio, il dolore, l’angoscia, lo sgomento – suo, di ognuno, del mondo intero – perché tutto è cambiato – dopo quel grande splendore.

 

 

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Riferimenti bibliografici

Baudelaire C. (1999), I fiori del male, Garzanti, Milano.

Bloom H. (2014), L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, Abscondita, Milano.

Boatto A. (1981), Lo sguardo da fuori, Cappelli, Bologna.

Brodskij I. (1998), Dolore e ragione, Adelphi, Milano.

Caramiello L. (1987), Il medium nucleare. Culture, comportamenti, immaginario nell' età atomica, Ed. Lavoro, Roma.

Keats J. (2005), Lettere sulla poesia, Mondadori, Milano.

Lucrezio (2003), De rerum natura, Einaudi, Torino.

Merini A. (1999), Poesia luogo del nulla, Manni, Lecce.

Milton J. (2009), Paradiso perduto, Milano, Bompiani.

Nietzsche F. (2015), La gaia scienza, Einaudi, Torino.

Thom R. (1980), Stabilità strutturale e morfogenesi, Einaudi, Torino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

M'hai insegnato a parlare, e questo è il frutto: so come maledirti, ora.

(William Shakespeare, "La Tempesta")