L'ignoto che appare

Un piccolo, grandissimo film.
Una storia di tormento e angoscia e speranza disperata.

Perché sì. Siamo tutti dei superstiti. Sì, è così: siamo sopravvissuti alla nascita e affetti da quel morbo incurabile che è la vita (che non lascia scampo). Il mare: affamato, abitato, carico di mostri e ricordi (che poi sono la stessa cosa). Il mare che è "l'ignoto che appare" (come direbbe Hugo von Hofmannsthal), il mare che è speranza e possibilità, rifugio e tomba, via di fuga e strada che riporta a casa. Per Aaron il mare è tutto questo. Almeno credo. Ha perso suo fratello in quella tempesta, in quella notte, in quell'incidente, o forse è stato il mostro marino che abita le leggende? Lui non ricorda bene. Tutti lo accusano di essere l'unico superstite di quella strage, perché a chi sopravvive noi non perdoniamo di avercela fatta. I morti hanno sempre ragione. E Aaron lo sa, lo sente, più di chiunque altro. E odia e si odia. E si dispera e piange, perché suo fratello era la sua vita. Ma lui è convinto che non sia morto. Deve essere lì da qualche parte, forse nelle profondità di quel mare dove risiede il mostro. Il cuore dell'uomo è esattamente questo. E lui ci prova, viene respinto, deriso, perseguitato dalla vita che ogni giorno gli ricorda di essere il superstite: perché tu sei vivo, Aaron, tuo fratello no. Inevitabile la discesa nel maelstrom: nella follia, nella disperazione, nell'illusione, nel mare, in sé stessi. E la barca costruita da solo, perché nessuno vuole dargliela. E l'abbraccio infinito con sua madre, che ha perso un figlio e l'altro è smarrito tra le onde della vita. E quel finale che esonda e fuoriesce dallo schermo, perché Aaron si è immerso nelle profondità del mare, è diventato pesce, come narra la leggenda, e ora può sconfiggere il mostro. Perché per tornare a galla, e respirare di nuovo, a volte bisogna scendere nelle più oscure profondità. Aaron abbraccia suo fratello.


For Those in Peril on the Sea.