Apan

Non so perché sono qui.
Non so cos’è successo.
Ho paura, fa freddo, il mondo ha smesso di girare.
Non so di chi sia questo sangue sui miei vestiti.

 
È già accaduto.
Non sappiamo cosa, ma è già successo.
Un uomo si risveglia sul pavimento del bagno.
C’è sangue ovunque, ne è ricoperto. Ma non è il suo.
La mattina è appena nata. Un nuovo giorno è cominciato. Siamo a Stoccolma.
L’uomo si chiama Krister. L’espressione del suo volto, che non cambierà mai, è tanto inespressiva da essere inquietante.
Poi si sveglia, si dà una ripulita, esce di casa e se ne va in bici per la città.
Indossa sempre l’auricolare a un orecchio, parla al telefono. Frasi sconnesse, dialoghi scarni, quasi del tutto assenti. Apan è un film di silenzi, ma così carichi di urla che vibrano nelle tempie e nei polsi. Di chi era quel sangue? Perché ha dormito in bagno? Come ci si può addormentare sporchi del sangue di qualcun altro?
L’aria è immobile. Il cielo ha il colore dell’assenza.
 
Fa freddo, ho paura, non capisco cosa succede.
Io non sono qui. Questo non sono io.

 
L’assenza è uno degli elementi fondamentali della poesia.
Come il vuoto, il nulla, l’attesa, la sospensione, l’attimo in cui.
In Apan c’è tutto questo. Dunque c’è poesia?
Non lo so. Sì e no. C’è la violenza dell’assenza, questa sì.
E credo che, in fondo, ci sia qualcosa di intimamente poetico in questa storia – o meglio: nella sua narrazione, nella sua messa in scena, nel suo racconto (perché la poesia è un come e non un che cosa). C’è la tentazione del silenzio che si mischia e si confonde con la necessità dell’urlo. Ne viene fuori un’apnea esistenziale che non lascia scampo. Guardate gli occhi di Krister. Il suo volto. I suoi gesti. Il bisogno del silenzio intrecciato alla volontà della parola, che non conosce pietà.
Ma non basta presentarsi con un vestito da “poesia” per essere poetico. Così come non basta soffocare la realtà con atti di routine e normalità per cancellare le macchie di sangue.
 
No, questo non sono io.
Io mi chiamo Krister.
Sono una brava persona, sono un insegnante di scuola guida.
È stato solo un attimo, lo giuro.
Non è successo niente.

 
Apan non fa davvero niente per farsi ricordare, ma fa di tutto per non farsi dimenticare.
E bastano due minuti per sentire il peso dell’inquietudine sulle spalle, sulle palpebre, sul cuore.
L’uso ripetuto della mdp a mano libera, che inquadra Krister riprendendolo leggermente sopra, da dietro la testa, aumenta e intensifica l’effetto di angoscia. Un’inquadratura e un’angolazione che sembrano quelle di un videogioco, come se quella che vedessimo fosse la “visione del giocatore”, e quello sullo schermo il nostro avatar. Guardiamo e viviamo la giornata attraverso i suoi occhi e la sua prospettiva. Una giornata che si fa sempre più surreale e tremenda. Soprattutto quando lui torna a casa.
 
Davvero, non è successo niente.
Deve essere stato un incubo, solo questo.
Ci sono pezzi di notte che mi tagliano il cuore.

 
Krister esce di casa in bicicletta. Poi recupera l’auto dal meccanico. Poi va al lavoro e dà una lezione di guida. C’è un senso di angoscia costante in ogni gesto, in ogni sguardo, in ogni silenzio, in ogni parola. Poi ha un attacco di panico. Poi telefona alla mamma. Poi va al negozio di bricolage. Poi ha un attacco di panico. Poi gioca a tennis. E un altro attacco di panico. E il mondo che collassa, l’universo che frana, la vita che muore.
È tutto scollegato, inquieto, inquietante, angosciante, ossessivo, pervaso da un senso di sofferenza pronto a esplodere in un milione di lame taglienti. La trama è a pezzi, proprio come il suo protagonista.
Poi Krister torna a casa.
 
La verità è che non è colpa mia.
Ve l’ho detto, questo non sono io.
Dovete capirmi.
Io sono come voi.

 
Gli eventi insensati e le azioni sconnesse, apparentemente un segno di debolezza della storia, hanno invece una profonda connessione con il gelido senso di alienazione e distacco di quest’uomo dall’espressione impassibile, che però trasuda irrequietezza, smarrimento, terrore, angoscia. Una sensazione di insanabile frattura tra lui e il mondo.
Apan è una storia morbosa, compulsiva, ai limiti del disturbante. Eppure non accade niente. È già successo. Noi siamo (con) Krister, per tutto il tempo, e respiriamo il suo tormento.
Sin dal primo fotogramma siamo proiettati in questo vortice di assurda e assillante angoscia. Una spirale caotica e oscura. E ci rendiamo conto che Apan pone al centro della sua frammentata e sincopata narrazione il senso di colpa, l’alienazione, la rabbia, l’insanabile frattura psichica di una mente alla deriva nell’abisso del proprio sé. Ci rendiamo conto di ciò in un momento preciso. Il momento in cui Krister torna a casa e apre la porta.
 
Voi siete come me.
Potete capirmi.
Vero che potete capirmi?
Andrà tutto bene.

 
Lui è fermo, la mdp lo inquadra di spalle, poi si sposta e allora vediamo tutto.
Il corpo martoriato della moglie.
La donna è riversa in una pozza di sangue raffermo, nel salotto, sul tappeto, vicino al tavolino, in mezzo ai ricordi di una vita. Ecco cos’era accaduto. Ecco di chi era quel sangue sui suoi vestiti. Ecco chi sei, Krister: un assassino.
Lo vediamo compiere gesti insensati. Prima porta in casa i sacchi comprati al negozio di bricolage. Si avvicina alla moglie ma subito se ne allontana. Vai in camera da letto e accende la tv (ecco, qui, in questo passaggio insignificante e brevissimo io ci vedo la sintesi perfetta del film, ma ci torno dopo). È agitato, frenetico, confuso, stordito, e noi con lui. Cammina. Riflette (a cosa pensa? A cosa ha pensato? Cosa vuole fare?). Va in bagno e vomita. Non sa che cosa fare. O forse lo sa benissimo. Il panico lo assale, ancora. Sta per sedersi su un tavolino per riprendere fiato, urla la sua rabbia, quando accade qualcosa che gela il sangue nelle vene.
«Papà!».
Una voce arriva dal piano di sopra.
Un bambino, suo figlio.
Krister sale le scale, si affaccia nella camera del figlio. Tentenna, esita. Non dice una parola. Poi entra. Il ragazzo è steso a letto. C’è sangue sulle coperte, sui suoi abiti. Il papà aveva tentato di uccidere anche lui, ora è chiaro. Ecco per chi erano quei due sacchi comprati al negozio. Ma il piccolo non è morto. E sembra non sapere o credere che sia stato il padre a fargli del male. Avrà passato ore di agonia atroci. Poi ha sentito la presenza del padre in casa e ha gridato con tutto il fiato che avevo in corpo «papa!».
Krister guarda suo figlio, poi lo prende ed esce di casa, lo carica in auto e corre all’ospedale.
 
Andrà tutto bene.
Non è successo niente.
Voi non capite. Voi non capite.
Cosa avrei dovuto fare?

 
La corsa in ospedale. Istanti e istantanee di una giornata che non è nient’altro che una discesa libera nell’abisso di un’anima di un uomo che ha ucciso a coltellate la moglie e che ha tentato di uccidere suo figlio. È davvero inquietante e tremendo vedere il volto di Krister sempre con la stessa espressione, che mantiene anche nei momenti in cui la tempesta emotiva raggiunge vette insostenibili.
 
Ma non sapremo mai perché l’ha fatto. Abbiamo solo suggestioni, timori, indizi di una crisi esistenziale che verosimilmente ha radici profonde, perché non è stato un raptus estemporaneo. Perché la rabbia di cui parla Apan è quella del maschio contemporaneo, probabilmente, credo sia una lettura plausibile. Allora quel senso di colpa e di frustrata emozione sono i sintomi – le metafore e le manifestazioni – di paure e desideri repressi, di sogni e fantasie spezzati, inespressi, sopiti, soffocati dalla quotidianità, dal dovere, da atti di routine e normalità. La “disfunzione” maschile, la crisi epocale del padre, la dimensione e l’interpretazione del ruolo paterno sulla soglia di una ridefinizione catastrofica, la frattura psicologica dell’uomo postmoderno: tutto ciò trova sostanza in una trama frammentata, in un racconto sconnesso, in dialoghi privi di significato, in cui il senso ultimo di ogni cosa sembra essere la volontà (o il desiderio o il bisogno) di non ammettere di essere ciò che invece si è.
Certo, il profondo mutamento identitario che sta accompagnando il maschio e il padre (a partire soprattutto dal secondo dopoguerra) non può essere riassunto esclusivamente in questi termini – rabbia repressa, violenza di genere, frustrazione, alienazione, derive sociali ed esistenziali. Ma questa è la storia che ci racconta Apan. E, secondo me, lo fa bene.
 
Per provare a comprendere il comportamento di quest’uomo, nel tentativo di assegnare un senso alla sua assurda follia, può venirci in soccorso una scena che abbiamo visto nella prima parte del film, quella sul campo da tennis. Qui vediamo Krister che gioca fissando insistentemente un ragazzo, e continua a guardarlo anche nella doccia. Lo scambio di battute è rapido ma ci arriva la sensazione che questa scena nasconda la chiave di lettura del disagio e della disillusione del protagonista. Probabilmente è nel rapporto con questo ragazzo che risiede il motivo della frustrazione e della rabbia di Krister. Nella scena della doccia sembra quasi che lui ci provi con il giovane, allora forse la ragione scatenante del suo rancore si trova nella sua sessualità. Il ragazzo appare infastidito e deluso, cosa che lascia immaginare ci sia qualcosa di pregresso tra i due, magari un approccio non andato a buon fine, qualcosa che si è interrotto prima che cominciasse. Forse lui si sentiva intrappolato dalla famiglia (la più antica delle istituzioni umane, quella che più di qualunque altra sta vivendo tempi di profonda ridefinizione identitaria), che gli impediva di vivere la sua sessualità – o quantomeno questo suo lato della sessualità – liberamente. Forse la moglie lo sapeva, forse ne stavano discutendo, forse la situazione è degenerata, allora lui ha impugnato il coltello e l’ha massacrata furiosamente. Forse poi ha salito le scale e ha raggiunto il figlio che dormiva, e ha accoltellato anche lui, credendolo morto. Quindi, completamente stravolto da un’emozione sconosciuta e con il cuore malato di angoscia e crudeltà, si addormenta sul pavimento del bagno.
Potrebbe essere andata così. Oppure no, magari non c’entra niente quello che ho appena detto. Sta di fatto, però, che Krister ha ucciso la moglie e ferito mortalmente il figlio, ed era ritornato a casa per disfarsi dei corpi. Ma il piccolo era ancora vivo, seppur agonizzante, e l’ha portato in ospedale.
Apan è un film disorientante, che stordisce, disturba e inquieta nel profondo.
Gli occhi vacui di quest’uomo hanno lo stesso colore del cielo: violenta ed enigmatica assenza.
 
Non è stata colpa mia.
Questo non sono io.
Non farei mai del male a nessuno.
Sì, sono arrabbiato, infelice, stanco di questa vita.
Ho dei problemi, ma chi non ne ha?
Non potete giudicarmi. Non avrebbe senso.
Non fare cose orribili non significa fare del bene.
Essere migliori di me non vuol dire essere persone buone.
E se questo è il vostro modo di sentirvi in pace con voi stessi, mi fate pena.
Ho fatto quello che voi pensate soltanto.
Io amo la mia famiglia.

 
Non c’è amore in Krister. Non c’è proprio niente. È il vuoto pneumatico dentro di lui. È un automa, un involucro, un niente di niente. Un assassino. Sicuramente misogino (lo vediamo urlare alla ragazza a cui sta dando la lezione di guida), un uomo carico di paure, desideri inespressi e repressi, un individuo la cui identità non ha mai trovato completa espressione, incapace di essere altro da sé, privo di qualsiasi forma di amore, non ama neanche sé stesso.
 
Lascia il figlio in ospedale. Poi va a casa della madre. Anche qui tutto sfuma nel surreale e nell’angoscia. Lui che gioca con le macchinine, che si stende in soffitta. Tensione e ansia. E poi la madre gli chiede di portarle il vino, ma lui prede un grosso coltello da cucina e va da lei. Si abbracciano. Cambio di scena.
 
Ora è in un bosco. Ancora un attacco di panico. Seppellisce maldestramente il coltello e l’auricolare. (Ma cos’ha fatto alla madre? Il coltello è pulito, avrà ucciso anche lei? E perché?).
 
Sta calando la sera. Ora è sui binari. La vita è insopportabile. È di spalle, il treno sta correndo, ancora un attimo è sarà finita per sempre. All’ultimo momento si lancia ed evita l’impatto. Ma la morte è già lì con lui. C’è sempre stata.
 
Quando lui rientra a casa, pronto a disfarsi dei corpi della moglie e del figlioletto, a un certo punto si siede sul letto e accende la tv. È una scena piccolissima, all’interno del delirio emotivo e del suo inabissarsi dentro di sé, ma a mio avviso è decisiva per provare a capire (immaginare/costruire) qualcosa di più del significato di questo film, soprattutto collegando tutto ciò alla scena finale.
In tv scorrono le immagini di un documentario sulle scimmie. E Apan vuol dire proprio “scimmia”. La voce narrante del programma in televisione descrive il primate in termini decisamente poco “aderenti” alla natura animale. Dice: «la scimmia è incantata dalla bellezza del lago, dal tramonto». E il suo viso è dolcissimo. Dunque, la “bellezza” è un concetto profondamente e inevitabilmente umano, perché associarlo a un animale? Perché si è sovvertito l’ordine dei sentimenti, del cosmo intero, dell’amore e di ogni umano sentire: la scimmia si lascia incantare dalla poesia di un tramonto che disegna meraviglie sull’acqua, mentre l’uomo rinuncia a qualsiasi tipo di emozione, sordo a ogni richiamo della poesia, svuotando sé stesso di ogni meraviglia (infatti è proprio dopo questo scena che lui va a vomitare). La bellezza è negli occhi della scimmia, mentre nei suoi c’è solo assenza, è lui la bestia. Apan.
 
E poi compra un giocattolo, torna in ospedale, va dal figlio, sembra stare meglio, riesce anche a parlare, la polizia è venuto a prenderlo, la giornata sta finendo, ma il figlio gli dice una cosa, gli racconta il sogno che ha fatto.
 
Ho sognato che erano tutti animali, tranne te.
Tu eri te stesso.

 
Solo te stesso.



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