Qualcuno avrà forse sentito parlare di un The Guilty con Jake Gyllenhaal uscito su Netflix. Ecco: è il remake americano di questa piccola perla danese a bassissimo budget.
In un centralino di emergenza, tra diverse chiamate apparentemente di poco conto, ne arriva una che colpisce l’agente di polizia Asger.
Una donna, fingendo di parlare con la figlia, sembra chiedere aiuto per essere stata rapita.
Nulla di strano, si potrebbe pensare. Il classico thriller poliziesco dove bisogna risolvere un caso. Se non fosse che tale thriller è costruito in un unico ambiente, solo con quelle chiamate. Solo con lo sguardo e la voce di Asger. Insieme a tutte quelle che si interconnettono alla sua per via telefonica. Dalla donna rapita al presunto rapitore. Un ritmo incessante scandito costantemente dallo squillare e dai successivi silenzi di chiamate interrotte.
Non vediamo mai nessun volto a parte quello dell’agente protagonista. Immaginiamo però i luoghi, le facce, la storia e le intenzioni delle voci che ascoltiamo. Ma la nostra percezione è parziale così come quella di Asger. Costruiamo idee evanescenti che come castelli di sabbia crollano in un niente, mettendo in discussione tutto quello che davamo per certo.
Avevano compiuto operazioni similari (con l'uso così centrale delle chiamate telefoniche) già Locke, Buried e la più recente serie tv Calls (lì con un approccio ancora più estremo, senza alcun frame di volti e location, solo con voce e grafica “astratta” abbinata). Ed è interessante perché in tutti questi casi, seppur con esiti diversissimi, il Tempo diventava centrale. Il tempo di un viaggio in auto in Locke, per sopravvivere in una bara in Buried e una versione più complessa dove passato e futuro si interconnettono in Calls. Un tempo che cambia e distorce la percezione, ponendoci innanzitutto davanti al limite stesso del guardare e dell’ascoltare. Come se quel tempo, che non possiamo mai davvero controllare (perché va, scorre ininterrottamente secondo il suo flusso autonomo), fosse accompagnato disperatamente da altrettante percezioni incontrollabili. Le immagini “vere” e consce del cinema lasciano spazio insomma ad “immagini immaginate”, dove è lo spettatore il primo ad avere l’erronea sensazione di essere proprio lui a creare visivamente il film.
Nel caso poi di ‘The Guilty’ il non-vedere risulta ancora più amplificato, perché diventa il limite stesso dei personaggi che via via incontriamo ascoltando. I poliziotti operativi che nel buio di una notte piovosa non riconoscono il furgone designato, l’amico Rashid che non vede nulla quando entra nella casa di Michael, la bambina a cui viene ordinato di non entrare nella camera del fratellino appunto per non vedere. E anche quando ci si riesce a volte è solo un inganno della mente (“tu li vedi i serpenti nella pancia?”), ma reale, vivo e intenso, proprio come quelle voci.
Gustav Möller, dopo un corto sul senso di reclusione all’interno di un ospedale psichiatrico, esordisce nel lungometraggio riprendendo un simile senso di claustrofobia, come fossimo letteralmente imprigionati in un auricolare. Un luogo chiuso, quasi impalpabile, che diventa a sua volta la rappresentazione fisica di un’impotenza esistenziale, dove si vorrebbe fare, ma non ci si riesce mai davvero.
In questo caso, però, rispetto agli altri film già citati, esiste un mondo esterno accessibile ad Asger, ma la nostra percezione (che segue la sua) sembra estraniarsi, escluderlo, bloccandosi umanamente in quella storia e in quella vicenda, a cui, capiremo, si sente molto legato. Tanto che ad un certo punto si isolerà ancora di più, chiudendosi in una stanza lì adiacente, dove persino le finestre saranno oscurate. Come ne Il figlio di Saul, insomma, vediamo, percepiamo che c’è un mondo attorno, ma è sfocato, indefinito, percettivamente inafferrabile. È un mondo che scompare, venendo divorato dall’abisso soggettivo di Asger. Esistono infatti apparenti vie di fuga, come c’erano per il gruppo di soldati all’interno del carro armato di Lebanon, ma qualcosa obbliga quegli individui a rimanere lì, qualcosa che moralmente ed umanamente li rende imprigionati in quel luogo e in quel tempo. Così Asger rimane, persino oltre il suo orario di lavoro, perché forse in quel limbo frenetico la richiesta d’aiuto esterno si unisce ad una richiesta d’aiuto a se stesso.
Lentamente quasi ci dimentichiamo che Asger sia un agente di polizia e che dall’altra parte sia stato compiuto un crimine efferato, abbiamo piuttosto l’impressione che ci siano esseri umani che parlano con altri esseri umani, ognuno con le sue colpe e il suo passato, duro, violento, apparentemente ingiustificabile. Così la voce di un centralinista smette di essere quella fredda, lucida, impassibile. E si fa tremendamente empatica e rassicurante per confortare una bambina preoccupata (“Sai io cosa faccio quando mi sento solo? Accendo la TV. Così mi fa compagnia”). Si fa incalzante ed impetuosa per convincere un amico e collega. Ma è la stessa voce che poi si infervora in impulsivi scatti d’ira. Una voce umana, troppo umana.
E così Asger, se prima faceva solo domande, le domande giuste, come la sua professione gli richiederebbe, ora dà risposte, apparentemente sbagliate.
E chissà se il giorno dopo in un’aula di tribunale saprà invece rispondere correttamente a quelle stesse domande. Mentre una luce rossa annuncerà che c’è una chiamata attiva.
Qualcuno sta ascoltando: quello che lui ha da dire.