In principio era uomo, poi divenuto bestia. 

Il suo corpo meno animale degli animali l’ha venduto alla selvaggia violenza. 

In principio era terra, poi divenuta tenuta.

I suoi frutti meno sporchi dello sporco quell’uomo bestia li ha venduti allo sporco denaro.

Ora è solo carne, sopra l’uomo, sopra la bestia, sopra la terra, sopra il denaro. 

 

Già in Nightmare Alley (La fiera delle illusioni) Guillermo Del Toro raccontava del disperato bisogno che portava alla genesi di un uomo-bestia, la più ricercata attrazione del circo, la più dis-umana illusione possibile. “È un lavoro temporaneo, finché non troveremo un vero uomo-bestia, che ne dici?” “Sono nato per farlo” così veniva proposto a Stan di rinunciare a tutto, eppure a niente, in virtù di una natura capovolta.

Domare animali con corpi umani. Domare uomini con corpi animali. L’atto stesso del domare porta con sé l’inevitabile ferita della carne, il dolore di una perdita, o forse del semplice contratto con il Diavolo.

Sorogoyen mette qui in scena una storia di montagna dura come la roccia, senza la maestosità luccicante di Del Toro, di uomini-bestie orgogliosi e ostinati sui loro ideali, non importa quanto nobili e legittimi, pur sempre irrazionali nello scontrarsi con pochi altri, aridi e fetidi come il letame. Ma su quella terra desolata fatta di poche famiglie e tanta natura non c’è fertilizzazione né crescita, tutto muore, tutto cade a terra, i pomodori contaminati dal piombo, le seggiole riempite di urina. Tutti scappano, nessuno torna (il proprio cane compreso). A parte una coppia di francesi, decisi, idealmente, a riqualificare con agricoltura eco-sostenibile e biologica tutto il paesaggio, quando tutti gli altri invece, storici e testardi abitanti, vorrebbero usufruire di una vantaggiosa offerta per costruire pale eoliche.

Ideali mentali persistenti che diventano corpi tesi, muscolari, stretti e serrati nelle proprie più radicate credenze inconcilianti. Culture che non sono astratta semiotica di costume, ma fisica semiotica del gesto, dello sguardo, del corpo sporco e allertato. Braccia prestanti che ostili si inerpicano di violenza. Bocche digrignate urlanti ideologie che diventano sfiati da cui esalare fatalmente. Nemmeno una piccola videocamerina portatile (in grado solo di riprendere l’amore incondizionato tra due coniugi) può immortalarle per salvarle da una paralisi mortale ormai certa. Quel rigor mortis che qui diviene di posizione, di senso, di esistenza, di resistenza, persino quando il presagio si è fatto epilogo irremovibile: Antoine e Olga sul voler ostinatamente rimanere in quel villaggio ad ogni costo, Xan e Loren per farli andare via. 
Quel passaggio sterminato tra pensiero e azione, idea e pragmatica che muove il recente meditativo The Killer di David Fincher, un serial killer appunto teoricamente vitruviano e ineccepibile, ma fallibile, mutevole, imperfetto nel tradursi in azione. Qui invece la mente è già corpo, il pensiero già carne, forse perché dotato della stessa impulsiva reazione di sopravvivenza, incosciente e incontrollabile: fight or flight, combatti o fuggi. 

Se rimani è perché non vuoi accettare la verità. Hai vissuto una tragedia e continui a viverci dentro” rimprovera la figlia alla madre. Ma l’ideale è troppo forte, la verità troppo inconsistente. Quelle parole tra cui Sorogoyen si muove sontuosamente in piano sequenza sono il vero recinto della nostra casa, del nostro possesso, delle nostre convinzioni. Corpi e parole come prigioni eppure umili dimore, in cui il piano di ascolto, come accade nell’altro straordinario lungo piano sequenza di Animali Selvatici, serve più spesso per prepararsi all'attacco. In un villaggio che nell’accumulare destini e ideologie toglie il respiro, per Mungiu saturandolo di persone come nella scena dell’assemblea appena citata, per Sorogoyen riempiendolo di poche persone, ma ingombranti nel loro pensare di agire.

Vicini in scontro come nell’islandese Under the tree, ma dove lì l’ironia nordica, pur mantenendo un tono nerissimo, alleggeriva l’inquietudine tra steccati confinanti all’ombra di fronde non gradite, in As Bestas non c’è mai distensione, compromesso, è sempre un Aut Aut, tra chi è pro e chi è contro, tra chi ha ragione e chi torto, tra chi parte e chi resta, tra chi vive e chi muore. 

In un luogo dove i gruzzoli di terreno hanno le loro leggi, i loro tempi, i loro incomprensibili ritmi, come quello tra i due fratelli di Rams, uniti e separati dalle loro stesse pecore, anche in quel caso vicini fisicamente ma lontani negli abbracci e nel calore conciliante di una nevicata.

 

A terra cade un cavallo, poi un uomo, poi una bestia.

Ma dalla terra non verrà fuori niente. 

Nessun fiore, nessun frutto, nessun uomo.

Perché “anche tu sarai sola, come me”.

Perché in quella terra nemmeno De André vale più:

dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior”.