Lo spettacolo della paura

Perché abbiamo paura? Da dove nasce il terrore? Con la sua opera terza Ari Aster indaga l’origine nevrotica più che l’effetto disturbante dell’emozione più tipica e fondante del cinema del genere, in un uomo che di fatto ha paura di tutto, in un universo che di fatto è ubiquitariamente terrorizzante, saturo di una follia incontrollata che violenta le strade e le persone, in un delirio cinematografico che è un’overdose allucinata eppure lucidissima, senza antidoto né risoluzione alcuna. Quella stessa paura che nella meravigliosa animazione di Monsters & co diventava parte integrante (ma non per forza edificante) della crescita dei bambini, in cui mostri professionisti raccoglievano l'energia delle loro urla fabbricando industrialmente paure, materia prima imprescindibile per mandare avanti un'intera città. Ma qui la paura non arriva da un altro mondo attraverso coloratissime porte colorate, la paura è già dentro la nostra casa, tra i nostri più intimi rapporti e contatti. Beau ha paura perché sua madre gliel’ha trasmessa, l’ha reso vittima della sua stessa carne prima che di un carnefice, colpevole della sua stessa vita prima ancora di nascere, un bambino burattino che rispetto a Pinocchio deve essere sempre controllato con i fili, le briglie, forse le catene. Un po’ il destino che attendeva la piccola Annette nel capolavoro omonimo di Leos Carax:  una figlia venduta allo sguardo, per l’Ego di chi l’ha messa al mondo, per uno spettacolo di marionette che diventa trasfigurazione divina (quel devastante “You have nothing to love”).


Le paranoie circondano infatti l’esistenza di Beau: attraversare la strada, dormire di notte, fare sesso, persino una pastiglia senza acqua diventa trauma angosciante, rivolta del mondo contro il suo Ego frammentato, lacerato, forse mai nato (perché all’ombra di uno più grande e ingombrante). Ogni cosa impatta catastroficamente sulla sua quotidianità, asfissia edipica lacerante e irrisolta. Un tormentato spettacolo di vita da mettere in scena solo tragicamente come nel capolavoro di Charlie Kaufman Synecdoche New York, con un finale in questo caso però violento già scritto dalla propria Madre-Dio-Regista, demiurgo emotivo (un po’ come in Annette) capace di plasmare ogni più minima fragilità con conseguenze apocalittiche: dialoghi, sogni, destini, colpe e fallimenti, si può andare avanti e indietro nella registrazione, ma non si può cambiarne l’esito con il telecomando come accadeva sempre tragicamente in Funny Games
Proiettare insomma teatralmente su quel figlio tutta la propria frustrazione auto-celebrativa, renderlo protagonista delle bugie di uno sceneggiato perfetto sulla compassione materna, su cui tutti gli occhi, i microfoni, le telecamere sono puntati. Nessuno guarda Beau, eppure tutti lo guardano dal loro schermo tecnologico (noi spettatori compresi), diventando complici di quell’atto voyeuristico collettivo che nella maternità trova tutto il suo angoscioso senso egoistico e narcisistico. Come in Nope di Jordan Peele l’osservare artificiale consuma la vita di chi si ha davanti, senza pietà alcuna, la telecamera imprigiona libertà e la vende agli occhi capitalistici e consumistici del mondo, diventa illegittimo atto di appropriazione. Lo era in Nope per quell’alieno da guardare, riprendere e quindi rivendicare come proprio, lo è qui per Beau che appartiene a tutti meno che a se stesso. 


Un The Truman Show dove ad essere messa in scena non è la vita perfetta del sogno americano, ma la paura dell’essere figlio di una madre che lo incarna in tutta la sua patologica manipolazione. Un reiterarsi teatrale appunto di traumi che esistono materialmente sul palcoscenico della propria mente, una scenografia infinita di pensieri fisici castrati dalla volontà di potenza della propria madre. La perfetta drammaturgia in cui gli attori non interpretano la propria felicità, ma si fanno carne delle proprie paure e dei propri deliri. Come a dirci che la paura è fisica, lo sono i traumi, lo è quella strana psiche che tanti hanno semplicisticamente definito come astratta immaginazione. L’emozione esiste anche davanti agli occhi, solo che per Beau è stata modellata dalla madre. Gli occhi di Beau vedono ciò che lei ha scelto di fargli vedere (e non vedere), la storia del suo dolore, della sua deformata colpa inespiabile che attende un giudizio finale, forse universale, in un’arena amniotica simile per certi versi a quella dei gladiatori romani dove anche lì si compiva il fascino malato e osceno di una morte traumatica spettacolarizzata.

 

Fin troppo debitore a Freud e alla sua ricca e discutibile collezione di interpretazioni psicanalitiche, Beau ha paura è un incubo ad occhi aperti inventivo e creativo, ipertrofico nel sognare come cinema prima ancora che con l’inconscio. Non ci sono differenze tra realtà e sogno, le entità coesistono, più probabilmente coincidono in questo universo schizzato di terrore che ha di fatto plasmato i ricordi come fantasmi della paura. 
"Non è un sogno, è un ricordo” viene intimato a Beau dalla madre.
Perché tutto il nostro dolore l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Solo che a volte è accaduto per mani di altri, fatte passare per le nostre mani.

 

Come già diceva magistralmente in pochi versi Patrizia Cavalli, parlando di un amore diverso da quello materno, e forse non patologico come questo: 

 

Se ora tu bussassi alla mia porta
e ti togliessi gli occhiali
e io togliessi i miei che sono uguali
e poi tu entrassi dentro la mia bocca
senza temere baci disuguali
e mi dicessi: «Amore mio,
ma che è successo?», sarebbe un pezzo di teatro di successo.