Ad appena 30 anni Kantemir Balagov, allievo della scuola di Sokurov, ha già un dittico cinematografico che porta il suo nome (‘Tesnota’ e ‘La ragazza d’autunno’) da far invidia ad intere filmografie più estese. Una coppia di film che dialogano in qualche modo con la Storia, lontano dalle oggettive realtà cronachistiche, ma filtrati piuttosto secondo il punto di vista parziale e frammentario di soggettivissimi occhi comuni.
Lo stesso approccio cinematografico che, seppur con obiettivi ed esiti completamente diversi, si è recentemente trovato in altri folgoranti binomi d’esordio: Laszlo Nemes (‘Il figlio di Saul’ e ‘Tramonto’) e Brady Corbet (‘L’infanzia del capo’ e ‘Vox Lux’).
In questo caso siamo nel 1945 a Leningrado, in un momento storico in cui, nonostante la guerra sia già finita, si riescono ancora a percepire nitidamente le tracce fisiche e psicologiche che il conflitto mondiale ha portato con sé, sconvolgendo e martoriando corpi umani ridotti a semplice carne da macello.
E di corpo (e fisicità) parla appunto ‘La ragazza d’autunno’, che, senza mai perdere sensibilità ed umanità, muove le sue fila tra gli stretti corridoi di un ospedale per reduci di guerra, in un luogo dove sopravvivere spesso non è che una condanna. Paralizzati, amputati, bendati o semplici ingessati. Tutti soffrono per essersi salvati. Tutti sentono forse il presagio della fine di una guerra collettiva, ma patiscono in egual modo l’assenza di un’analoga fine di sofferenza personale.
Persino Iya, la protagonista, pur essendo un’infermiera, avrebbe tutte le caratteristiche per essere dall’altra parte, con un trauma da stress che le congela temporaneamente il corpo ed il respiro in uno stato di immobilità estrema (“si incanta” – dicono). Alta, altissima, bionda e timidissima. Una “spilungona” e “giraffa”, come viene definita, che dietro ad un’apparente goffaggine fisica, nasconde forse una profonda difficoltà nel gestire il linguaggio di quel suo grande corpo allungato e disallineato, stretto costantemente in spaziosi maglioni colorati. Una fisicità inviolabile che ha conosciuto il mondo attraverso la sua componente più violenta e disumana.
Il solo conforto che la giovane infermiera trova è in un piccolo e dolce bambino di tre anni, affidatole dall’amica Masha, ancora al fronte a combattere. Questi rappresenta l’unico residuo di purezza ed umanità in un contesto raggelante dove tutto può essere solo distrutto e non più costruito. Un bambino che diventa simbolo del futuro, della delicatezza di un corpo candido che deve vivere e non sopravvivere.
Ma qualcosa accadrà a quel piccolo corpo, troppo fragile per un mondo così fisico ed oppressivo: qualcosa di inaspettato ed incontrollabile, proprio come il trauma che fa perdere il respiro ad Iya.
E così, quando Masha tornerà a casa per rincontrare il figlio, troverà un vuoto, paragonabile a quello di una ferita aperta, restia a guarire e cicatrizzare. E tra le due amiche seguirà un indomabile flusso di tensioni, continuamente sospeso tra affetto sincero e incompatibilità di prospettive. Un inevitabile gioco di opposti simile per certi versi a quello esistenziale tra Elisabeth e Alma in ‘Persona’ di Bergman.
Visi e corpi femminili che più si attraggono (e desiderano), più si danneggiano, riflettendo perfettamente le conseguenze fisiche di una guerra che, come si è detto, seppur formalmente finita, sembra essere invece più viva che mai.
È una prigione carnale dove il dolore scandisce gli attimi di un tempo concentrico. Un’orbita gravitazionale di sofferenza a cui nessuno si può sottrarre.
Quel mondo pare pervaso da una luce infuocata, ardente ed urente come una ferita infetta. Una luce calda come un tramonto, annuncio tanto bramato della fine di una giornata infausta, che in quell’ospedale, per quei pezzi di carne ormai parzialmente viva, forse mai arriverà. Perché neppure il gelido mondo burocratico sembra infatti fornire una via di fuga, incapace di ascoltare e anzi timoroso e spesso disgustato dall’imperfezione di quegli esseri umani che prima, invece, ha voluto gettare sul campo di guerra muovendoli come marionette sacrificali.
Per questo tutti cercano (come possono) un appiglio, qualcosa a cui aggrapparsi per evadere da quella condizione di agonia e proiettarsi finalmente verso un futuro lontano. Ogni reazione, seppur diversissima tra Iya e Masha, diventa l’unico possibile tentativo di esistere ancora, disperatamente.
Un bisogno, poi tramutato in ossessione, di possedere materialmente qualcosa di nuovo.
Qualcosa di fisico.
Qualcosa che mostri concretamente i segni della nascita di una nuova epoca.