Autopsia di una tristezza: tra difesa e accusa di un ricordo

Il processo manipolatorio di un’indagine in tribunale. Dopo che un uomo, un marito, un padre, un padrone, è morto misteriosamente, sagoma senza vita piombata sulla neve gelida delle Alpi francesi. Lasciare però che a riordinare i pezzi del puzzle delle nostre vite siano gli altri, accusa e difesa, persone che di noi non sanno nulla, se non piccoli frammenti parziali. E così lasciare anche che quei frammenti dicano ciò che non siamo, o ciò che siamo stati e non siamo più. Ipotesi, ricostruzioni, supposizioni. Sovra-interpretazioni (o meglio vivi-sezioni) che attraverso testimoni inattendibili rimpiazzano la più ambigua verità, la divorano, la consumano pezzo dopo pezzo, vuoto dopo vuoto.
La ricerca del colpevole di un omicidio-suicidio si trasforma così nella ricerca del colpevole del fallimento di un matrimonio. Da un’anatomia di una caduta all’autopsia di una tristezza. Lì tra i banchi degli imputati dove non esiste premio, la verità seducente cambia, si stravolge, si distorce, si fa iper-soggettiva. Emblematica in questo senso la macchina da presa che durante il processo in tribunale inciampa nel trovare un focus preciso, si perde tra i volti, tra i colpi di scena, tra le nuove forme imprevedibili create dal puzzle. 


Una storia serrata di contaminazione e condizionamento, che mette in discussione tutto ciò che abbiamo visto e soprattutto sentito. Operazione analoga al recente Saint Omer di Alice Diop, un dolorosissimo legal drama che partendo dalla storia di un infanticidio rivela l’analoga natura falsificatrice della giustizia, che nel cercare disperatamente e razionalmente colpevoli e moventi rimaneggia storie e vite, incalzando con continui perché senza risposta (come dice la protagonista ad inizio film “Spero di scoprirlo con questo processo”). Ed è lo stesso destino infausto che attende la direttrice d’orchestra Lydia Tár nel capolavoro omonimo di Todd Field: vedere la propria carriera (e immagine) data in pasto agli occhi giudicanti e affamati dell’opinione pubblica, annebbiati come quelli ipovedenti del piccolo Daniel (che poi si riveleranno gli unici in realtà capaci di illuminare, “far vedere” appunto, l’umanità più pura). Nessuno ha visto eppure tutti vedono insomma. Immagine e suono si interconnettono nell’immateriale essenza di una verità impalpabile, come in TÁR immagine persecutoria di un suono impossibile e inaccettabile.

Donne fortissime eppure fragilissime: Sandra in Anatomia di una caduta, scrittrice di successo, con un carattere impavido e dirompente, che si denuda però umanamente sotto il lento sgretolarsi di ciò che ha sempre chiamato casa (e che deve per questo ricostruire dopo che la corte l’ha disassemblata mattone dopo mattone), Laurence in Saint Omer che impassibile e irremovibile descrive ciò che ha dovuto sopportare con agonia e inerzia, condannata dalla vita all’invisibilità eterna (e come si è detto anche la regista Justine Triet qui parla del limite del visibile), Lydia in TÁR alla vetta dell’Olimpo della musica classica, ossessionata da una volontà di potenza pressoché totale che l’annulla però in un individualismo sfrenato. Sandra e Laurence al banco degli imputati, Lydia al podio del direttore d’orchestra, davanti agli occhi di tutti. Lì, come si diceva, dove tutto cambia, si collega, si frantuma, mentre i pregiudizi del patriarcato ancora aleggiano non solo in vecchi testi maschilisti rap. Persino quel romanzo che Sandra ha scritto anni prima, ora accusato di plagio, viene dissezionato come se dentro ci fossero risposte che nessuno riesce a trovare, perché in fondo “l'idea di una scrittrice che uccide suo marito è molto più affascinante del suicidio di un professore”.


Come insegna il meraviglioso Stringimi forte di Mathieu Amalric (anche lì una tragedia in mezzo alla neve alimentava una fallimentare ricostruzione di ricordi distrutti) la memoria è innanzitutto un processo associativo e l’oblio un trauma dissociativo, uniti insieme da una cacofonia che non può procedere in loop come il P.I.M.P. di 50 cent a tutto volume che apre il film. Da qui nascono i falsi ricordi (che sono molto più che semplice invenzione drammaturgica), da qui nascono i disturbi post-traumatici da stress. 

In quella coppia di Anatomia di una caduta che da complice diventa rivale (da un punto di vista letterario, genitoriale, sentimentale) emerge in stato di accusa un disequilibrio solo percepito o forse reale, ma in ogni caso una disparità di aspettative e di sogni familiari che lì in quella nebbia di parole forensi si fa fumo di reminescenza. Il linguaggio stesso diventa una forma di mediazione inconciliante più che di comunicazione efficiente, con quell’inglese per parlare al proprio figlio (persino durante il processo) che si trasforma in un terreno verbale (spesso infertile di discordia) a metà strada tra Francia e Germania, tra i due mondi inconciliati.
Qualche anno fa Andrew Haigh parlava magistralmente di questo “tempo dei ricordi” nel suo stupendo 45 anni, un caleidoscopio di memorie, di passati vissuti che tornano desolanti a rimescolare le carte (ancora per mano del gelo) quando è tempo invece di festeggiare il futuro (i 45 anni di matrimonio appunto). Un’operazione di svelamento sentimentale che qui invece si gioca tutta tra avvocati e giudici, mentre uno dei protagonisti è sepolto sotto la neve.
 

E così alla fine riempire i vuoti dei ricordi dove mancano prove e farmaci per curarli.
Riempire gli sguardi di volti congelati in fotografie che non riconosciamo più (“tu ti ricordi com’ero prima?”).
Riempire i suoni, dei nostri passi sfumati sulla neve, di un parlare a bassa voce che si è infuocato nel frastuono di urla violente, di poche note di un preludio di Chopin appena accennato, ma lasciato libero sulla tastiera del pianoforte di armonizzare nuove variazioni, nuovi accordi, nuove melodie, prima inesistenti. 
Riempire così i silenzi dello spartito, con una nuova memoria, una nuova vita, una nuova felicità.
Perché alla fine poco importa com’è andata veramente, tanto ormai tutto mi ha già ferito. 
I've already been hurt
J'ai déjà été heurté