Recensione di   Riccardo Simoncini Riccardo Simoncini

Afire

(Film, 2023)

La sospensione del tempo, amori immanenti separati e frammentati, l'inesauribile ricerca di immagini di volti inafferrabili perché spesso trasfigurati e traslati, il cinema di Christian Petzold che sempre ha ragionato misteriosamente su questi concetti immergendoli nel passato (o reale o indefinito come il meraviglioso Transit) li immobilizza qui nella brevità di un estate, nella leggiadria di un soffio di vento, di una pagina scritta nell'infinito blocco di uno scrittore in crisi, continuando l’ideale trilogia iniziata con Undine


Amori, desideri, desideri di amori, desideri di desideri. Nel tempo che è contemporaneamente rapido ed eterno dell'estate, dove tutto si ferma per un poco, il fuoco è l'unica essenza che dà ritmo all'esistenza. La foresta brucia, il cuore arde. Mentre la cenere volteggia attorno alla passione per decretarne il fallimento. L’odore di un’estate sospesa in cui sembra erroneamente di avere ancora tempo per tutto, in cui non pare essere mai troppo tardi per nulla, perché oggi bisogna lavorare e per innamorarsi c’è ancora domani, per un bagno al mare, per vederlo brillare di notte, per scrivere quel romanzo che svolti la carriera. La tragica attesa, non aspettando qualcosa, ma evitando che accada, o forse diventando ciechi per evitare di vederla accadere. Un film ipnotico sull’impossibilità del sentire, del giovane anestetizzarsi ai segnali premonitori del proprio destino. Di un gulasch grondante sull'erba, di una lasagna ormai fredda abbandonata sul tavolo, l'incessante ronzio di insetti svolazzanti che non danno tregua, i gemiti di cinghiali lontani o forse vicini di cui è difficile intendere l'emozione. Asciugarsi senza sudare, anche quando il fuoco avanza a circondarci, con le fiamme alte a riempire l’orizzonte, il frastuono degli elicotteri che cercano invano di domarle e l’odore di bruciato a pesarne l’atmosfera, nostalgici della leggerezza che fu. 


Leon è un giovane scrittore in crisi, burbero e respingente, impaziente eppure inerte, che in quell'estate che ha il sapore del tutto e del niente si trasferisce sul Baltico nella casa isolata di un amico per trovare tranquillità e ispirazione, tra le stanze-ruoli che si impregnano degli elementi basilari della terra - mare, vento, fuoco - dinamica materia in movimento, cuore pulsante in perenne trasformazione, a cui però Leon sembra del tutto ignifugo, idrorepellente. Leon non si accorge del mondo intorno e quindi neanche di quello dentro di lui. Osserva senza vedere, ascolta senza sentire, parla senza comunicare. E intanto l’immagine empirea di Nadja (la solita onirica Paula Beer) incontrata fulminea in quella casa gli sfugge sotto gli occhi, sotto il suo incessante declinare proposte, sotto le domande che non hai mai posto (“Perché non mi hai detto cosa facevi?” “Perché non me l’hai chiesto”). Come sfuggono Felix e Devid, gli altri giovani del gruppo quaternario, tutti innervati dalle pulsioni più intellegibili e tutti sinonimi di una catastrofe shakespeariana ormai non solo annunciata.
Ma dopo essersi bruciati il cuore, forse si sentirà di nuovo qualcosa.
Son degli Asra, quei che muoiono quando sono innamorati”.

 

Da Il Buio In Sala - Re­so­con­to del 41°To­ri­no Film Fe­sti­val (2023)