Dovendo rinunciare al genio di Kaufman per la sceneggiatura, Spike Jonze abbandona le acrobazie narrative delle opere precedenti senza tuttavia rinunciare alla complessità delle emozioni. Tratto da un libricino di Maurice Sendak (Where the wild things are), il film si caratterizza per il contrasto fra l’estrema povertà del racconto e l’enormità delle sue implicazioni. La sostanza, dunque, è messa tutta fra parentesi, e se ciò può essere compreso da un pubblico adulto, lo stesso non si può dire per i più piccoli. Così, paradossalmente, Jonze realizza un film sui bambini ma non per i bambini. La storia è quella di Max, ragazzino vivace e di fervida immaginazione, capace di inventare ogni giorno nuovi giochi immedesimandosi appieno nei tanti mondi fantasticati. La continua ricerca del piacere ludico fa però da contraltare alla difficile situazione familiare. La sorella è in fase adolescenziale, mentre la madre è divisa fra il lavoro e la ricerca di un nuovo partner. Max soffre la mancanza di attenzione e per compensare sviluppa una realtà psicologica straordinaria: un universo abitato da creature indecifrabili, il cui aspetto buffo e soffice nasconde caratteri sfaccettati avvezzi al capriccio, all’ira, alla gelosia, ma anche a sentimenti più nobili come la fratellanza, la simpatia e il rispetto. Confrontandosi con loro, il giovane protagonista si nutre di questo tripudio emozionale, assaporandone le gioie e i dolori. Esperisce così l’importanza della diversità, imparando a riconoscere e ad accogliere tutto ciò che rappresenta l’altro-da-sé.   
Nel paese delle creature selvagge è un film ambivalente: può annoiare a morte e può commuovere. Ciò accade poiché per apprezzarne la poesia si deve possedere una certa configurazione interiore; bisogna lasciar libere di vibrare le corde dell’anima ancorate alla passata condizione di fanciullezza. Riusciremo allora a ricordare e comprendere quanto da bambini siamo stati cuccioli indifesi e allo stesso tempo tiranni. Tiranni perché da neonati percepiamo gli altri come strumenti alla mercé dei nostri bisogni; i genitori ci nutrono, ci sostengono, ci proteggono e tutto ruota intorno a noi. Così facendo sviluppiamo una personalità narcisistica e insieme il desiderio di assoggettare il mondo ai nostri appetiti. Nella testa disegniamo una gerarchia precisa in cui noi siamo i re, “padroni di questo mondo”. Re, non tiranni, perché i re sono buoni, anche quando fanno la guerra (di zolle); i re sono importanti, sono perfetti. E allora tutti noi, bambini-re, proiettiamo su entità esterne le nostre corruzioni nel tentativo di trascenderle. Ecco l’origine delle “creature selvagge”, esseri alieni, strani(eri) (oggi peluche abnormi, domani persone) che portano il fardello delle debolezze dei bambini per salvaguardarne l’integrità e proteggere il mondo idilliaco da loro governato. È questo il mondo dei giochi, dove tutto è entusiasmante e non c’è spazio per la tristezza, la pena, la solitudine. Qui il bene vince sul male, sempre. Nessun bambino vorrebbe mai abbandonare un simile luogo, eppure i denti cadono tanto lentamente che non ce ne rendiamo conto e poi, un bel giorno, ci ritroviamo senza denti del tutto, ossia sperimentiamo la nostra impotenza: le persone vanno e vengono e anche il sole, un giorno, morirà. In quel momento di consapevolezza, noi, bambini-re, affrontiamo l’orrore della destituzione, poiché il nostro regno utopico sta per sgretolarsi sotto i colpi della vita reale in cui nulla è perfetto e nulla è per sempre. L’intima sofferenza che proviamo può allora trasformarsi in sentimenti di ingiustizia, ma anche svelare l’esistenza di un destino comune, che per quanto fragile e incerto ci rende tutti uguali, tutti esseri umani. Nel primo caso, accecati dalla brama di rivalsa, saremo governati da invide ed egoismi. Nel secondo, invece, accetteremo di essere “uno qualunque” (non più re, bensì Max) e con ciò la paternità dei nostri difetti, riconoscendo gli altri come creature simili a noi e per questo meritevoli di compassione. In ogni caso, la nostra evoluzione avrà il prezzo di una perdita, quella della spensieratezza puerile che ci isola dalla realtà, ma al tempo stesso ci protegge dal mondo reale e dalle sue turpitudini.