Holy Motors è un viaggio intenso attraverso il complesso rapporto fra l’arte e l’artista, fra il cinema e l’uomo, legati inestricabilmente da una dipendenza reciproca che ne avvicina le sorti.Ci sono alcuni film che nascono per andare incontro al pubblico, altri, invece, per giocare con lo spettatore e dettare le loro regole. Certamente, il rapporto asimmetrico che ne consegue può risultare fastidioso e opprimente, ma spesso, con le sue forzature, è in grado di condurci verso sentieri impensati, luoghi inesplorati che dischiudono nuovi orizzonti. Sembra essere questo il più grande obiettivo di Holy Motors, un film dove il cinema è un grande organismo vivente che aspira all’autoaffermazione e tuttavia necessita del suo demiurgo: l’uomo. L’uomo è Oscar (un eccezionale Denis Lavant) che per mestiere vive le vite degli altri, un attore a cui non è concesso, però, di interpretare sé stesso. In altri termini egli non ha un’identità, non sappiamo nulla di lui, sappiamo solo che è eternamente altro-da-sé. Fra una missione di lavoro e l’altra, Oscar viaggia in una limousine adibita a camerino, nella quale si prepara accuratamente per le sue performance.La storia è tutta qui, ma non in senso riduttivo; la storia, infatti, è tutta quella della settima arte che fa i conti con le sue condizioni e la sua essenza, il suo stato e il suo statuto. Da un lato, dunque, con Holy Motors il (meta)cinema mastica continuamente sé stesso in un sottile gioco di rimandi, ora interni, ora ad altri film, ora ad interi generi cinematografici; un vero sollazzo per i cinefili più smaliziati. D’altra parte, questo aspetto ludico non cela l’inquietudine per il destino della settima arte: innanzi a una platea cieca, la macchina del cinema è costretta a viaggiare invano, poiché non c’è bellezza nell’occhio di chi non guarda. Privata della sua natura estetica, essa non può far altro che spegnersi lentamente, per poi essere rottamata. È qui, però, che l’istinto di sopravvivenza dell’arte può suggerire soluzioni alternative, nuovi significati, nuovi significanti, nuove teorie, nuove tecniche. In questo caso la speranza è che lo spettatore non abbia paura di abbandonarsi al flusso delle immagini, all’esperienza sensoriale, oltre che intellettuale, correndo anche il rischio di rimanere disorientato; solo con un simile shock sarà possibile riaprire gli occhi.Certo, non è una strada semplice da intraprendere e molti potrebbero sostenere che l’opera di Carax non sia un film adatto a tutti. Eppure, in fondo, è un film che parla di tutti. Come suggerisce Goffman, la nostra esistenza si struttura in un perpetuo palcoscenico dove ognuno aspira alla ribalta onorando dei ruoli, mentre nessuno vuole finire dietro le quinte. Ma che succede se il prezzo da pagare per questa recita senza fine è l’abiura della nostra identità più intima? Che succede se la sera, rincasando dopo una faticosa giornata di pantomime, saremo ancora costretti ad indossare una maschera? Forse finiremo col vivere una vita da Oscar, oppure la vita di Oscar, non cambia molto. Sarà comunque finzione.