Era soltanto il mio secondo Martone.
Il primo, Capri-Revolution, mi lasciò un'impressione strana, tanto interessante e particolare per molti versi quanto talmente pieno di cose da darmi l'impressione di non riuscire a tenerle tutte assieme.
Ecco, Nostalgia no, Nostalgia è un film che ho amato tutto e a cui riuscirei a cambiare davvero poco.
Felice è un bel 55enne (il solito spettacoloso Favino i cui sorrisi e i cui occhi mi rapiscono sempre, mortacci sua) che vediamo tornare a Napoli in aereo.
Scopriremo poi che vive a Il Cairo da 40 anni, fuggito dalla sua città natale in seguito ad un episodio che verrà fuori solo a metà film.
A Napoli c'è ancora la sua anzianissima madre.
E tanti tanti ricordi.
Tra i quali quello dell'amico del cuore, più d'un fratello, amico che adesso ha preso una strada molto diversa dalla sua.
Felice vuole incontrarlo, a tutti i costi.

Martone racconta (ancora una volta, come in tutta la sua carriera) la sua Napoli e basterebbe solo quella a far grande il film.
Siamo nel Rione Sanità, uno dei quartieri più popolari e degradati della città (malgrado mi hanno raccontato come, in realtà, questo rione nacque come polo borghese e nobiliare).
E' una Napoli "vecchia", bellissima, fatta di viuzze, mercatini, murales.
Soprattutto nei primissimi minuti del film Martone sfrutta il suo personaggio per aggirarsi in questi vicoli e in mezzo a queste persone (curioso come Felice, probabilmente solo per l'abbigliamento, venga preso sin da subito come uno "di fuori", vedere ad esempio il cameriere che gli fa domande in inglese) facendo calare lo spettatore sin da subito in un contesto tanto affascinante quanto "nervoso" e "stretto", un contesto in cui il personaggio di Felice ci sembra continuamente fuori posto.
In realtà Felice, e questo è un aspetto talmente importante del film da ricavarci fuori quasi una tematica, si sente completamente a suo agio.
La sua felicità ed emozione nell'essere ripiombato (senza che fosse mai tornato prima) nella sua città natale sono talmente forti da nascondere tutto il resto.
E questo sarà il mood, quasi commovente, dell'intero film, ovvero quello di un 55enne che, appena messo piede a Napoli, torna il 15 enne di allora.
E tutto per lui è bello, e tutto è "facile", e tutto può essere risolto col sorriso.
In realtà tutto ora è diverso, Felice si ritrova invischiato in una storia criminosa, tutti provano a dirgli di andarsene (un pò come Capuano al giovane Sorrentino in E' stata la mano di Dio, film che più volte mi è tornato in mente qua) ma lui non si rende assolutamente conto di quello che sta accadendo, come se rifiutasse la vita adulta (o quantomeno rifiutasse il sè adulto di adesso a Napoli).
Lui è ripiombato nei suoi ricordi, lui non ha vissuto quei 40 anni di Rione Sanità.
E l'errore più grande che farà è pensare che il tempo si sia fermato, che quello che si era un tempo si è anche adesso.




Nostalgia ha un grande merito, ovvero quello di raccontare una storia bellissima (non a caso è un romanzo).
Un 55enne che torna a Napoli dopo 40 anni (c'è una cura sul linguaggio di Favino su cui tornerò), una madre da ritrovare ed accudire, un ricordo terribile che piano piano torna fuori, la vita parallela di un amico adesso opposto a te.
E' l'esaltazione di quei racconti popolari semplici ma perfetti, con un piccolo intreccio, racconti al tempo stesso ordinari ma con quei 2/3 aspetti che li rendono straordinari (come qualsiasi nostra vita, se solo abbiamo l'occhio e la capacità di coglierli).
E poi grandi attori, e poi una grandissima atmosfera, e poi una Napoli che più la vedo più la amo.
Ho parlato di atmosfera perchè questo film che per larghi tratti sembra una via di mezzo tra un drammatico soft e un malinconico per poi diventare un thriller di altissimo livello.
Un thriller che ha la capacità di crearti tensione più sul togliere più che sull'aggiungere.
Di fatti ne accadono, vero, ma più che altro Nostalgia è fantastico per come riesce a creare un clima tesissimo (io per tutto il film sono stato lì a dirmi "cazzo, sta per succedere qualcosa di gravissimo, finirà molto male") che mai più ti abbandona, anche nelle scene più distensive (penso ad esempio alla bellissima sequenza dei ragazzi del parroco che ballano al ritmo di un pezzo rap arabo - così simile al napoletano... - sequenza in cui sono stato per tutto il tempo con il cuore in gola pensando accadesse qualcosa di brutto).
Martone è bravissimo nel raccontarci questa situazione di "occhi ovunque" di occhi che vedono tutto, di finta serenità.
Ci sono però anche dei thriller straordinari in cui il clima di tensione è tutto tuo, dello spettatore, in cui ti senti più teso per te stesso che per i protagonisti.
 Qui invece, grazie ad un personaggio così buono, ingenuo e fuori dal mondo (o almeno da quel mondo in cui è tornato) come quello di Felice si crea una insolita e bellissima empatia.
E saper far amare i propri personaggi è sempre qualcosa di grande in una regia.



Martone ha la capacità di raccontare tutto senza mai essere didascalico e retorico.
La povertà, il degrado, la criminalità, il coraggio di chi si oppone, i luoghi virtuosi (come la parrocchia di quel giovane e magnifico prete, simbolo di molte figure come lui realmente esistenti), in Nostalgia ritroviamo tutto quello che puoi cercare in un quartiere come quello. Eppure Martone non si mette sul piedistallo, non giudica, non crea scene madri, non si schiera.
Si limita a raccontare gli uomini.
Ed ecco che Nostalgia non diventa mai un film affresco o, se lo fa, è perchè lo spettatore, stimolato dalle piccole figure del dipinto, poi l'affresco se lo figura da solo.
C'è, ovviamente, grande malinconia anche se pure in questo aspetto non si cade mai nello sguardo d'insieme e collettivo del: "guarda come si stava bene un tempo" ma, anzi, riserviamo tutti questi aspetti malinconici alla figura di Felice.
Che poi, malinconici...
Non è un caso che il film si chiami Nostalgia e non Malinconia, perchè più che uno sguardo triste verso il passato c'è, semplicemente, la grandissima voglia di riviverlo quel passato, ci sono gli occhi a cuore nel farselo tornare alla mente.
Felice non è un vecchio che ripensa al passato e si intristisce, al contrario, è un uomo di mezz'età esaltato dal ritrovarsi dentro i luoghi di quel passato e, per questo, voglioso di aprire la mente ed accoglierli a pieni polmoni.
Martone più di una volta ci mostra dei bellissimi flash back, spesso in montaggio alternato nel presente degli stessi luoghi, ed è questa la sensazione predominante, ovvero quella del riappropriarsi di quei tempi, di quelle emozioni, di quei momenti.
La scena della moto è davvero una perla in questo.
E non è un caso che più ricordi vive Felice più decide di voler restar là, più capisce che solo là può essere realmente... Felice.
Tutto questo è possibile perchè lui, per 40 anni, non è mai tornato.
Diversa è la storia per chi quegli anni in quei luoghi li ha invece vissuti tutti, per chi lì è invecchiato, per chi ha vissuto ogni minuto di cambiamento, per chi può realmente rendersi conto di come si stava un tempo e come si sta ora.
Felice, invece, è una madeleine fatta uomo, è un ricordo reificato in carne ed ossa.

Oltre alla figura del prete (interpretato dal bravissimo Francesco di Leva, già da me molto apprezzato nel notevole Una Vita Tranquilla), figura quasi ciceroniana per Felice per come riesce a raccontargli - sia nei luoghi che nelle anime che nel clima - il Rione Sanità di oggi, sono senz'altro due i personaggi più importanti e belli del film, i due legati a Felice per sangue, anche se sangue di diversa natura (e la differenza sta tutta lì...).
Parlo della madre, una splendida Aurora Quattrocchi (che ho ancora negli occhi in quegli impressionanti ultimi minuti di E' stato il figlio) e dell'amico d'infanzia - ora boss - Oreste (Tommaso Ragno, magnetico).



Le scene con la prima sono dolcissime.
Quella in cui lui la lava, completamente nuda, nella tinozza resta probabilmente la scena più indimenticabile del film, forse perchè così aliena in un cinema che questo tipo di sequenze tende sempre a non mostrarcele (che coraggio e che sensibilità la Quattrocchi nell'avere accettato).
E' vero, racconta qualcosa di detto e ridetto, qualcosa che fa parte di tutti noi, il famoso concetto per cui i figli di un tempo, accuditi in tutto e per tutto dai genitori, un giorno saranno i loro padri, coloro che dovranno accudirli in vecchiaia.
E' qualcosa di bellissimo e tragico allo stesso tempo, nè più nè meno che una delle immagini simbolo di uno dei possibili sensi delle nostre esistenze.
Però in Nostalgia è così ben raccontato, così "semplice", così naturale, che ne viene fuori qualcosa di ancora più bello.
E' che qualsiasi cosa fa Felice sembra scollegato dalla società, dalle convenzioni, dai ruoli.
Ogni suo pensiero ed ogni sua azione sono naturali, "scontati", nel senso più bello del termine.
Ed è il mood che lo porterà anche a voler rincontrare a tutti i costi Oreste, il suo "fratello" di un tempo, benchè sia perfettamente consapevole che non ci sono assolutamente le condizioni ideali per farlo (anzi, Felice ha davanti agli occhi, ma sembra fregarsene, mille segnali per capire che deve stargli lontano, vedi la moto bruciata o la minaccia nel muro di casa).
Il loro incontro è una perla.
Questo boss, che noi ci immaginiamo pieno di soldi, vive in realtà come un topo da sempre. Nel degrado, nella sporcizia, nella promiscuità sessuale, nascosto.
La sua è stata una non vita, come un latitante.
40 anni sono troppi per non pensare che le cose siano cambiati e due estati magnifiche passate insieme a 14 e 15 anni non possono essere il legame di una vita.
Eppure Felice - che come ho detto più volte tornando a Napoli è come se avesse cancellato 40 anni di oblio - questo non lo capisce.
E' un incontro teso, tra un uomo che ha avuto una vita terribile ed ha scelto una strada tremenda (personaggio sì viscido ma anche empatico, da capire) e uno in giacca e cravatta che oltre a quella tragedia del passato non si è mai più sporcato.
I due si rinfacciano cose, urlano (e anche qui Felice dimostra di non aver capito chi è diventato Oreste, lo tratta come una persona normale che pensa legatissima a lui), si emozionano.
E poi si perdono, come è giusto che sia.
Ho trovato meraviglioso come in questo accesissimo dialogo Felice parli più volte in napoletano stretto. Ma è il punto di arrivo di un percorso iniziato e portato avanti nell'intero film, quello di una lenta riappropriazione del dialetto napoletano che non è solo questione fattuale (ovvio che più tempo si passa in un luogo più si impara (o reimpara) la lingua) ma fortemente simbolica.
Felice sta tornando sempre di più il 15enne di un tempo, Napoli è sempre di più dentro di lui, è come una lentissima trasformazione, un ritorno al vero sè.
Pensiamo anche alla cena nella famigliona (dove Felice, ancora una volta, si dimostra ingenuo come pochi, incapace di capire la situazione generale) dove, ad un certo punto, lo vediamo anche bere un bicchiere di rosso, lui che per la nuova religione - è diventato musulmano - non poteva più farlo.
Poche settimane a Napoli e tutto il Felice egiziano è già completamente perso, anche se ha passato lì 40 anni.



Lentamente ma inesorabilmente ci avviciniamo alla fine.
Inesorabilmente, già.
Perchè la sensazione è stata sempre quella, anche se ho sperato per tutto il film che quello che ero sicuro sarebbe accaduto non accadesse.
Prima abbiamo altre scene emozionanti, come quella Napoli sotterranea in cui Felice, nel volto di una madonna araba, rivede quello della moglie.
Come i pugni al saccone da boxe, primo vero momento dove capiamo che quel personaggio che sembra non rendersi conto di niente, forse, ha una tensione dentro pazzesca.
Ma la fine, con una colonna sonora inizialmente diegetica (bellissima) che poi avvolge le scene finali, è semplicemente la fine a cui un racconto così doveva portare.
Eppure ti uccide dentro.
Eppure fa tanto male.
Un omicidio a sangue freddo, vigliacco.
Un portafoglio preso al quale vengono rubati dei soldi.
Una foto che non fa nessun effetto.
Per Felice il tempo si era fermato a 40 anni prima, Oreste era un suo fratello.
Ma Oreste ha vissuto lì 40 anni senza mai rivederlo e Felice non è più niente per lui, anzi, è l'immagine di un odioso uomo che ha avuto tutto mentre lui ha vissuto come un topo.
In questa spietata e terribile diversa visione delle cose finisce Nostalgia.
Con un uomo ancorato agli affetti di un tempo e che crede che quelli si fossero come cristallizzati, fossero immortali, più forti di tutto.
Dall'altra parte un uomo finito e disperato.
Per cui quegli affetti valgono meno di una vita umana e 200 euro.