Finale de La Grande Bellezza.
Una bellissima ragazza bionda si gira verso quello che sappiamo essere il giovane protagonista.
Un'istantanea.
E' lei probabilmente quella grande bellezza che Jep poi ricercherà per tutta la vita, è lei quell'attimo cristallizzato per sempre nella sua testa.
E' stata la mano di Dio.
L'avvenente e problematica zia di Fabio ad un certo punto si ferma lungo il vialetto.
Fabio la guarda, la vede scostarsi i capelli.
Un'altra istantanea.
Un altro attimo cristallizzato nel tempo, un attimo che accompagnerà per sempre Fabietto.
Due scene minime, di quelle che se provi a raccontarle sono già finite, identiche.
E tutte e due mostrate da Sorrentino in modo tale che siano LA scena, che siano il momento in cui qualcosa che era prima adesso più non è e qualcosa che verrà dopo deve ancora arrivare.
La vita di due diciassettenni (sia ne La Grande Bellezza che qua), anzi, di un solo diciassettenne (perchè in quella scena a questo punto è facile immaginare che Jep fosse Paolo), la vita di due diciassettenni che hanno come momento di crocevia quello in cui una donna li guarda, un momento eterno in cui ci sono solo loro, solo lui e "lei".




E' stata la mano di Dio, per me, non è grande come Le Conseguenze dell'amore o La Grande Bellezza.
Perchè il primo è un film piccolo e perfetto e il secondo un film immenso e imperfetto (e nell'immensità ci deve essere l'imperfezione, non si può dare un limite all'immensità).
Questo non è nè piccolo nè immenso, nè perfetto nè imperfetto, questo è un film vero, verissimo, che ambisce ad essere tanto (quasi tutto) ma senza l'arroganza e la magniloquenza de LGB.
Sorrentino abbandona le sue non narrazioni, le sue non trame per tornare ad un cinema lineare, dritto come una spada, senza flash back, senza deviazioni, senza sottostorie.
Ed è commovente come per raccontare la sua vita Sorrentino abbia appunto abbandonato la quella che ormai è riconosciuta come la "sorrentinità".
E' commovente se pensiamo specialmente ad una delle scene più belle del film, quella dove Capuano urla a Fabietto:

"Non ti disunire!!"

E cosa è stato il cinema del secondo Sorrentino, quello più famoso, se non un cinema disunito?
Ed ecco allora che, invece, per raccontare sè stesso, Sorrentino ascolta quel vecchio consiglio, "non ti disunire". E lui allora non si disunisce, racconta un anno della sua vita in modo "intero", senza parzialmente scremarsi, senza orpelli, senza rapsodie, senza parentesi che si aprono e chiudono, senza divagazioni, senza perdersi.
Un gesto di umiltà, un (apparente) passo indietro artistico che Sorrentino fa per non camuffare la realtà, per non rendere manipolata la verità, per non rendere sorrentiniana la sua vera vita.
Perchè è questo il paradosso de sto film, ovvero di come questo autore spesso odiato come uomo e artista quando poi fa un film in cui fonde le due cose tra loro, quando oltre a Sorrentino riesce a raccontare tanto anche del Paolo, si ritrova davanti l'amore sconfinato di tutti.
Forse anche perchè questo è un film coraggioso, un film dove ci viene mostrato un ragazzo debole (anche se sembra forte quando non piange,) senza una strada anche se convinto di quale dovrà essere la sua, timido, spaesato, completamente fuori dal consesso femminile, costretto a diventare uomo aiutato da una vecchia (scena che parte ridicola e finisce lirica, con quel "Voglio solo darti una mano a guardare il futuro" che è frase di una bellezza e verità infinite, è la frase che ogni depresso (come sono stato anche io), che ogni persona "ferma" vorrebbe sentirsi dire, questa è la verità, trovare persone che sanno darti e dirti che ci sarà un futuro, e che magari ti danno le armi per farlo).
La figura di quella baronessa, fino a quel momento una delle più deboli del film, diventa così gigantesca, diventa probabilmente quella che, meglio di tutte, capisce cos'è che tiene ancorato Fabietto, cos'è che non riesce a fare o superare.
E chissà se per Sorrentino l'inizio al sesso fu così.
Ma fu così o non fu così poco ci cambia, lui nel film della sua vita l'ha raccontato così.
Lui, quello che viene considerato l'arrogante di turno, il piacione.
Voi l'avreste fatto?


Nella prima parte ho riso tanto, ho riso per questo sguardo dolce e ironico del film, ho riso del fidanzato "reduce di guerra" che parla attraverso un apparecchio, ho riso più volte durante la scena del pranzo di famiglia (può mancare in un film di ricordi un pranzo di famiglia?) dove quella mamma con le arance sembra Maradona (già, Maradona...), ho riso della zia misantropa che mangia la mozzarella di bufala, ho riso vedendo quei fenomeni da baraccone nella sala d'attesa di Fellini (in una scena, questa sì sorrentiniana, che ricorda tantissimo quella dal chirurgo estetico ne LGB), ho riso per quelle persone che guardano tutte da una parte e quella parte cui tutti guardano è una parte dove se ne sta, completamente nuda, una bellissima donna che ha deciso da un pezzo di non appartenere più a questo mondo. E di mostrarsi quindi nuda, fisicamente e mentalmente, con tutte le conseguenze che ne verranno.
E che personaggio meraviglioso è la madre di Fabietto, una donna 55enne che crede ancora nel gioco, che fa scherzi telefonici, che fa travestire amici per impaurire il marito, una donna che attraverso lo scherzo sa esaltare la sua intelligenza e sensibilità. 
E non è un caso che nel suo momento più difficile lei faccia di nuovo la giocoliera con le arance, lacrime e arance che volteggiano, una meraviglia.
Il gioco per lei è un modo per affrontare il mondo, per combatterlo, per esorcizzarlo.
E un fischio diventa la voce per dirsi ti voglio bene.
L'ho amata, tanto.

Ma ho amato tanti personaggi, quasi tutti, quel padre affettuoso, quel vicino che sembra SuperMario (non ho controllato ma dovrebbe essere il professore di Favolacce, grande attore), quella zia procace che diventa il personaggio più tragico del film, l'unico a cui la felicità è stata preclusa sia oggi che domani, quel fratello che si gode la vita senza dimenticare un solo attimo l'affetto, quella sorella che non vedremo mai, se non alla fine, perchè - come in un tempo eterno - se ne sta sempre al bagno.
Solo quando Napoli impazzirà per lo scudetto, solo quando la casa sarà vuota perchè tutti fuori sono felici, lei per la prima volta potrà uscire.
E Sorrentino, così, ci racconta probabilmente anche di una depressione in famiglia, con un garbo, una delicatezza e una sensibilità rare.
Ma quanti rimandi poi ad altri film, suoi e non, con quella prima scena di Patrizia e San Gennaro che pare La Grande Bellezza trasportata a Napoli (che sì, grande, grandissima bellezza lo è di suo, e quel drone iniziale silenzioso ce lo mostra), con quelle centinaia di foto di donna da Fellini che paiono il bunker di Rush ne La Migliore Offerta, con quel fischio di uccelli che ci rimanda a Youth, con quello sfogo della zia misantropa che pare il finale de E' stato il figlio, con quei due genitori che si tengono la testa nel divano (poco prima di morire) che pare di essere in una delle scene più belle e commoventi del cinema di Sorrentino (quella di Andreotti e la moglie ne Il Divo), con quella videocassetta de C'era una volta in America che alla fine non si vedrà mai come fosse un pranzo bunueliano.
Ma il rimando per me più emozionante è quando l'amico "delinquente" racconta a Fabietto il rumore che fanno gli offshore. E la mente mi è andata ad una delle scene e dei finali più belli e struggenti del cinema degli anni 2000, quello di Biutiful, quando un padre, nello stesso identico modo, buffo e sussurrato, provava a spiegare al figlio il rumore che fanno le onde giganti del mare o quello del vento.
Tutti gli attori, al solito, sono eccellenti ed è impossibile non ricordare lo splendido protagonista Filippo Scotti.
In realtà non ho amato tutto però.
La prima scena è sì esagerata, simbolica e cartolina di Napoli come poche (quella di San Gennaro, del monaciello e dell'affidarsi a queste credenze popolari) ma mi è sembrata un filo oltre. Come davvero malfatta ed evitabile ho trovato quella che si completa con questa, ovvero il secondo monaciello che vede Fabietto dal treno per Roma (molto coerente, chiude il cerchio con la prima ed è simbolo di buon auspicio - ricordiamo che lei rimase incinta davvero - ).
Ma la scena che ho trovato davvero come una pessima caduta di stile è quella dove la zia odiata da tutti viene pestata. Scena non ironica, del comico peggiore, e che non rispetta un personaggio sì grottesco ma anche complesso ed affascinante.
Tra l'altro mentre nella tv intanto Maradona slalomeggia per quello che sarà il goal del secolo, nella stessa partita in cui segnò, poco prima, quello della mano di Dio che dà titolo al film.
Eh, Maradona, inutile dire che c'è sempre, prima come un Godot e poi come un'apparizione.
E Fabietto dice che preferirebbe l'arrivo di Maradona ad un incontro di sesso con Patrizia. 
Eppure è una bugia a sè stesso perchè per quanto divinizzato potrà essere il primo (per lui come per tutti i napoletani) non gli cambierà mai la vita come vedere sua zia che si discosta i capelli davanti a lui.
Ma è strano che un amante e conoscitore del calcio come me alla fine parli così poco di Maradona in questo film.
E' che mi è sembrato il personaggio secondario sempre presente ma mai quello che, realmente, muove le cose.
Mi è sembrato il pretesto per essere felici e per essere infelici, per sperare e per disperare.

C'è un altro personaggio che rimane più addosso, quello di Antonio Capuano.
Quei pochi minuti con Fabietto sono enormi.
Lui prima diffidente e che poi, piano piano, in quel ragazzo così imbranato e sincero vede però qualcosa, probabilmente quella verità che è merce rara.
Lui che gli consiglierà di non andare a Roma, consiglio che Fabietto (Sorrentino) non coglierà.
Ma che gli farà capire che forse per far cinema serve solo una cosa.
Avere qualcosa da raccontare, anche se sia solo una.
Quel:

"La tieni una cosa da dicere?" mi ha aperto il cuore.


E quel:

"E allora dimmèlla"

con quell'accento sulla "e" che per i napoletani è normale ma per quasi tutti gli altri provoca una sensazione strana, come se appartenesse ad una lingua sconosciuta.

E alla fine Fabietto la trova una cosa che ha da dire.

"Non me li hanno fatti vedere"

Forse sarà questo il motivo per cui Sorrentino ha cominciato a far cinema, a raccontare cose. Per curare quel trauma.
Questo è il cinema, questo è il film, di un uomo che non ha potuto vedere i genitori andati via per sempre.
E di un uomo che non riesce a togliersi da davanti agli occhi una ragazza che scosta i capelli.