Probabilmente c’è un momento della vita in cui ciascuno di noi deve fermarsi a riflettere sul serio. A volte c’è una causa scatenante, un evento che ci ha segnati particolarmente, che può spingere a farlo. In questo caso è facile vedere in Kim Ki-Duk il tentativo di isolarsi dalla secular life, dal mondo, come un monaco buddista che si trascina dietro la sua pietra nel vano tentativo di espiare i suoi peccati come in Primavera, estate, autunno, inverno e… ancora primavera. E’ facile vedere in lui la necessaria urgenza che ognuno ha di esprimersi con la sua arte, nonostante eventi esterni ci abbiano piagato, nonostante vi siano stati dei tradimenti. Forse quello che lui vuole dirci è che solo l’arte, in questo caso cinematografica, con qualcosa di simile ad un documentario autoprodotto incentrato sulla sua confessione, può farci tornare alla vita. Pieni di ferite che non si rimargineranno mai, ma con la voglia di condividerle, urlando il proprio desiderio di scalare la propria vetta. Il cammino è impervio, il passato può sembrare minaccioso, ma alla fine riusciremo a richiamare antichi ricordi senza che questi agitino più il nostro animo, guardando al tramonto senza più preoccupazioni. Smettendo di rimproverarci.