Prima o poi nella carriera di qualsiasi musicista arriva il momento del “best of”, magari incalzato dalla casa discografica, oppure per raggranellare qualche soldo in un periodo di stasi artistica o più semplicemente per ricordare al pubblico ma soprattutto a sé stessi che si è ancora vivi.
Il sol dell’avvenire è il film compilation di Nanni Moretti, concepito ad uso e consumo del suo pubblico, una serie di scenette, come in una sorta di Aprile parte seconda, appiccicate alla bella e meglio e tenute insieme con lo sputo da una parvenza di trama ed un montaggio scandaloso.

La forma de Il sol dell’avvenire è talmente ai limiti dell’amatoriale dilettantesco che ci si domanda se non volesse essere un pessimo tentativo di costruire una sorta di film anarchico e libero.

Torna per l’ennesima volta l’espediente meta cinematografico, come già in Sogni d’oro (1981), Il caimano (2006) e Mia madre (2015).

Stavolta però Nanni Moretti mette in scena sé stesso nel personaggio di Giovanni, intento a girare (finalmente verrebbe da dire) il film sul Partito Comunista Italiano negli anni ’50, senza pero il pasticcere trotzkista che attendiamo da una vita.

La pellicola in questione vede Silvio Orlando e Barbora Bobulova nei panni rispettivamente di un dirigente ed una militante di una sezione del Pci del Quarticciolo che ha appena invitato il circo ungherese Budavari pochi giorni prima dell’invasione russa dell’Ungheria.

Poteva essere l’occasione per Moretti di girare il suo personale Effetto notte, mostrando magari il dietro le quinte del suo metodo di lavoro ma di tutto ciò non vi è traccia.

C’è giusto qualche guaio con il produttore incarnato da Mathieu Amalric nella parte della special guest straniera che pare d’obbligo dopo il John Turturro di Mia madre.

Per il resto Moretti ripropone le sue consuete passeggiate per Roma sostituendo la Vespa con un più moderno monopattino, si lancia nell’ennesimo monologo sulle scarpe riciclato da Bianca (1984), fa partire all’improvviso momenti musicali con stacchi che manco un montatore alle prime armi ed infine costruisce un’intera sequenza di battutine su Netflix salvo poi farsi saggiamente copro durre il film da Canal Plus alla faccia della coerenza.

Ancora peggio quando Giovanni si reca sul set di un film prodotto dalla moglie Paola (Margherita Buy) ed attacca un monologo sulla rappresentazione della violenza partendo da Breve film sull’uccidere di Kieślowski.

Qui tocchiamo veramente il fondo con l’inutile comparsata di Renzo Piano che dice due sciocchezze su Apocalypse Now, l’onnipresente Chiara Valerio a spiegarci la composizione dell’inquadratura ed infine Corrado Augias che si mette ad analizzare senza un perché L’amor sacro e amor profano di Tiziano.

Ci sarebbe pure una telefonata a Martin Scorsese ma, guarda un po’ che strano, parte la segreteria telefonica.

Insomma, come detto, un copia ed incolla di monologhi e situazioni già viste in mille altri film di Moretti che si auto cita e recita talmente uguale al personaggio che si è costruito nei suoi stessi film da sembrare la parodia di sé stesso, aiutato in questo, bisogna dirlo, da Margherita Buy che evidentemente ambisce ad entrare nel Guinness dei primati per aver interpretato tutta la vita la parte della nevrotica.

Gran finale, si fa per dire, con una sfilata pseudofelliniana dei protagonisti de Il sol dell’avvenire e manifesto di Trotskij in bella vista.

Prima del cartellone finale che ci ricorda come sarebbe stato bello se il Pci si fosse staccato da Mosca cosicché oggi potremmo vivere tutti felici e contenti l’utopia comunista e del saluto al suo pubblico da parte di Moretti compaiono tra la folla alcuni degli attori che hanno recitato con lui in passato.

Ecco che allora viene il sospetto che Il sol dell’avvenire valga, più che altro, per quello che inconsapevolmente trapela tra una scenetta e l’altra.

Parliamo di piccoli dettagli; L’ombra delle torri del fumettista Art Spiegelman in primo piano, la fede volutamente esibita da Giovanni/Nanni, l’impossibile amore omosessuale contrapposto alla rigida “etica” comunista incarnata da Silvio Orlando che è uno dei pochi spunti che potevano essere interessanti se solo Moretti l’avesse minimamente sviluppato.

Ed infine, ovviamente, l’assenza nella parata finale di Laura Morante che, probabilmente, dice molto più di quel che vorrebbe sullo stato confusionale di un film senza capo né coda, dallo stile amatoriale, concepito come un insieme di sequenze appiccicate alla come capita buone solo per rassicurare i fan.

EMILIANO BAGLIO