Ruggero Deodato, Sergio Martino, Lucio Fulci. C’è voluto Eli Roth perché i nomi proibiti di alcuni dei più importanti registi di genere italiani venissero pronunciati all’interno di un Festival. Triste destino il nostro, a partire dagli anni ’60 il nostro cinema di genere, lentamente ma inesorabilmente, ha varcato i confini dell’Italia e come un virus ha infettato le menti di molti di quei registi che oggi in troppi osannano. Bistrattati in patria i nomi sopra citati, ai quali non si possono non aggiungere almeno quelli di Mario Bava, Sergio Leone ed Umberto Lenzi, sono stati oggetto di venerazione soprattutto oltreoceano. Dalla generazione di registi americani che si sono fatti le ossa alla corte di Roger Corman, un altro re dei b-movies (gente come Francis Ford Coppola, Joe Dante, Jonathan Demme ), passando per Scorsese (amante di Bava) sino al gruppo che ruota intorno a Quentin Tarantino, del quale fa parte sia Eli Roth sia Robert Rodríguez, tutti hanno imparato come fosse possibile fare buon cinema di genere, toccando alle volte vette artistiche eccellenti, attraverso i cosiddetti film di serie b italiani. E noi italiani, da bravi sudditi, oggi ci lasciamo allegramente colonizzare da questi registi americani che non fanno altro che riproporci quello che noi sapevamo fare meglio e con meno soldi. La colpa, ovviamente non è di Tarantino, di Rodríguez o di Roth. Loro hanno coronato il sogno di qualsiasi adolescente, fare soldi realizzando i loro personali omaggi al cinema che hanno amato. The green inferno non sfugge a questa regola, è un omaggio sfacciato, alle volte al limite del plagio, di Cannibal holocaust di Deodato. Siamo sicuri che quando arriverà nei cinema i soliti critici paludati non mancheranno di fargli pubblicità inconsapevolmente parlando di scandalo. Le masse correranno al cinema allettati come le mosche dal miele e si berranno beatamente il finto scandalo sicuri di aver assistito a qualche cosa di nuovo, oltraggioso e sfacciato. Tanto quei nostri film degli anni ’70 quelle masse semplicemente non li conoscono, non sanno neanche chi siano quei registi. Gli altri, quelli che invece quasi fossero una setta, ne perpetrano il culto acriticamente, confondendo troppo spesso i prodotti di qualità con l’immondizia, si accontenteranno dell’omaggio ai loro idoli e tutti saremo felici e contenti anche se Eli Roth ci avrà solo e semplicemente fregato. D’altra parte questo chiede il grande pubblico e forse non è un caso che altri autori quali John Carpenter o George A. Romero, fatichino a trovare produttori per il loro cinema di genere, troppo colto, troppo classico, troppo politicamente impegnato. In The green inferno non c’è traccia di quel tipo di cinema. Certo Eli Roth gioca anche a fare il politicamente scorretto narrando di un gruppo di militanti ecologisti che finiscono vittime di una tribù di cannibali. Alejandro (Ariel Levy) il capo della spedizione è un personaggio odioso e cinico che in realtà fa il doppio gioco ed è al soldo delle multinazionali ed il resto del gruppo è composto da ragazzi bianchi un po’ snob provenienti dalla media borghesia americana giustamente destinati a diventare carne da macello. L’ossessione imperante che guida questo gruppo di imbecilli in gita scolastica è quella di apparire ad ogni costo e l’oggetto feticcio è il telefonino col quale riprendere la realtà circostante e che diviene l’unica arma contro la devastazione delle foreste in un mondo dominato dalle immagini. Non ce ne voglia Eli Roth ma forse avrebbe fatto bene a guardarsi Le cronache dei morti viventi di Romero, vero atto di accusa e profonda riflessione etica e cinematografica sulla civiltà delle immagini, magari avrebbe imparato come si fa grandissimo cinema di genere riuscendo a parlare anche d’altro. Comunque non preoccupatevi, un paio di scene cruente in The green inferno ci sono e si parlerà solo di quelle. Sono giusto un paio, niente di più, nulla che chi è cresciuto a pane ed horror non abbia già visto in altre pellicole, un po’ com’era accaduto in Hostel nel quale per chi avesse un po’ di conoscenza di cinema di genere praticamente non c’era nulla di scandaloso o di violento e quel poco che c’era arrivava dopo un prologo lento, noioso ed anche un po’ sciocco. The green inferno è costruito secondo la stessa struttura, lungo prologo, un po’ di violenza, finale aperto. Per fortuna Roth almeno ogni tanto si lascia andare all’ironia, come nella scena in cui la vegana del gruppo è costretta a mangiare interiora di maiale o quella in cui il corpo senza vita della stessa ragazza viene riempito di marijuana generando stati d’alterazione nei cannibali che se ne cibano. Non c’è altro da segnalare se non una delle peggiori scene di disastro aereo che la storia del cinema ricordi. C’è poco da fare noi quelle cose quarant’anni fa le facevamo meglio e con meno soldi. Eli Roth però non deve preoccuparsi, saranno in pochi a denunciare il suo sporco gioco, il suo film avrà il giusto battage pubblicitario, farà il suo bravo incasso, lui potrà dormire sonni tranquilli e noi continueremo a renderlo ricco perché questo è forse il cinema che ci meritiamo.