Dinnanzi ad una pellicola come Stonehearst asylum viene spontaneo chiedersi che razza di film volesse fare Bard Anderson e quali siano gli oscuri motivi che abbiano spinto i curatori del Festival ad inserirlo nella sezione “Mondo genere”. Siamo alla vigilia del 1900 quando Edward (Jim Sturgess) raggiunge il manicomio del titolo per iniziare il suo apprendistato presso il dottor Lamb (Ben Kingsley). Qui, manco fossimo all’epoca della rivoluzione operata da Franco Basaglia, trova un istituto in cui i matti, invece di vivere richiusi ed essere curati con barbari metodi medievali, sono liberi e vengono accuditi con amore e comprensione. Ben presto fa la conoscenza di Eliza Graves (Kate Beckinsale) di cui si innamora perdutamente all’istante. Certo l’atmosfera non è poi così idilliaca come sembrerebbe ed alcuni membri dello staff quali Mickey Finn (David Thewlis) non ispirano certo fiducia, ma nulla lascerebbe supporre il segreto nascosto tra quelle mura. Tratto da “Il sistema del Dr. Catrame e del Prof. Piuma” di Edgar Allan Poe, il nuovo film di Anderson parte come un potente racconto gotico. L’ambientazione, la cura nei costumi, la fotografia, tutto concorre a ricreare alla perfezione l’atmosfera tipica delle novelle di Poe. I temi in ballo sono molti e potenti. Da una parte c’è lo scontro tra il vecchio ed il nuovo esemplificati nell’avvento imminente di un nuovo secolo che dovrebbe liberare l’umanità dalle tenebre del passato. Dall’altra c’è un gioco continuo sul doppio, visto che nessuno dei personaggi del film è realmente ciò che sembra essere. Peccato che Anderson ben presto lasci perdere tutte le possibilità intraviste all’inizio della pellicola ed imbocchi la strada del melodramma in costume. Intendiamoci il regista è comunque capace di sequenze ben costruite e rende bene soprattutto quando affonda il coltello nella descrizione dei metodi barbari utilizzati per curare i matti prima dell’arrivo del dottor Lamb. In alcuni momenti Anderson recupera la lucidità che aveva mostrato in film quali “L’uomo senza sonno”, “Vanishing on 7th street” e soprattutto nel suo esordio “Session 9”, ottimo thriller horror anch’esso ambientato in un manicomio. Purtroppo si tratta di momenti isolati all’interno di una pellicola che non riesce a sfruttare nessuna delle possibilità che pure avrebbe. Basterebbe paragonare questo lungometraggio ad un lavoro comunque non pienamente riuscito come “Shutter Island” di Scorsese per individuare tutti i limiti di Brad Anderson. Al contrario di Scorsese che, pur con dei limiti, riusciva a creare una permanente sensazione di ambiguità, qui tutto avviene meccanicamente, senza un vero sussulto. Tutto si riduce ad una messa in scena tanto filologicamente perfetta quanto sterile. Per fortuna c’è almeno un cast, del quale fa parte anche Michael Caine, composto da autentici professionisti che salva il risultato. Purtroppo la svogliatezza con la quale Anderson tratta la vicenda ha la meglio su tutto ed emerge palesemente in un finale nel quale, il presunto colpo di scena, viene rivelato con una sufficienza ed un menefreghismo quasi fastidiosi.