Sivadhasan è una tigre Tamil. All’inizio del film lo vediamo mentre brucia i cadaveri dei suoi compagni di lotta e poi i suoi vestiti, prima di fuggire verso la Francia con la nuova identità di Dheepan. Con lui porta una donna (Yalini) ed una bambina di 9 anni (Illayaal), entrambe sconosciute a lui e tra di loro, le quali dovranno “interpretare” la parte della moglie e della figlia dell’uomo.
 
L’ultima opera di Jacques Audiard è un film che attraversa tematiche e generi diversi mantenendo fermo il punto di vista del suo protagonista maschile, la cui mente è indelebilmente segnata dagli orrori della guerra. Si tratta di uno sguardo allucinato che dona al film un ritmo ipnotico e straniante anche nei momenti di più crudo realismo e che spesso caratterizza diversi punti della pellicola, si tratti degli incubi che perseguitano Dheepan o dell’immagine ricorrente di un elefante, delle foglie di un albero della periferia di Parigi riprese come se fossero quelle della giungla o dei momenti in cui l’uomo si abbandona all’alcool, sino alla sequenza in cui il nostro arriva nella terra promessa nella quale vediamo una serie di luci colorate che si stagliano contro il buio e che lentamente si rivelano essere niente altro che un cerchietto per capelli luminoso con orecchie da Topolino, una delle tante paccottiglie che Dheepan vende per le strade nel tentativo di sopravvivere.
Dheepan è innanzitutto la storia della cesura tra l’esistenza di questo improvvisato nucleo familiare ed il resto del mondo, una separazione continuamente sottolineata dagli elementi diegetici del lungometraggio, basti pensare al fatto che l’uomo osserva continuamente la vita della periferia nella quale vive attraverso la finestra di casa (“è come essere al cinema” sottolinea la moglie) o alla linea bianca che traccia materialmente come confine tra il suo palazzo e quello di fronte nel quale vive la gang che controlla il quartiere.
Ecco che allora la casa dove vivono questi rifugiati diviene un guscio protettivo, un ventre materno nel quale rifugiarsi e cercare disperatamente una normalità, magari sospinta dagli impulsi sessuali crescenti della coppia o dal desiderio di sentirsi amata della bambina.
Fuori da questo rifugio c’è un mondo incomprensibile, innanzitutto per un problema linguistico; un tema ricorrente nel cinema di Audiard. In Sulle mie labbra la sordità della protagonista si rivelava fondamentale per portare a compimento una serie di rapine; ne Il profeta la conoscenza del francese, del corso e dell’arabo era l’elemento sul quale si reggeva l’intera carriera criminale dell’interprete principale.
Stavolta Dheepan, Yalini e Illayaal tra loro parlano solo Tamil e quindi spesso non comprendono ciò che dicono gli altri (grazie al cielo la distribuzione ha deciso di non doppiare i dialoghi che si svolgono in tamil cosa che avrebbe reso incomprensibile e ridicolo il film).
Il desiderio di integrazione passa dunque innanzitutto attraverso la necessità di imparare il francese, soprattutto per quanto riguarda la bambina, forse il personaggio che più di tutti sente il bisogno di essere accettata nel mondo.
La lingua è anche il mezzo che permette all’interprete che fa da tramite tra Dheepan e l’assistente sociale di suggerire all’uomo una storia credibile da raccontare per ottenere lo status di rifugiato.
Infine l’impossibilità di comprendersi fa nascere inaspettate confessioni, è il caso del dialogo tra Brahim (il boss locale) e Yalini nel quale il primo trova il coraggio di mettere a nudo le proprie debolezze e la seconda di svelare l’inganno della propria vita proprio in virtù del fatto che i due non si capiscono.
Ma non è solo il linguaggio a sottolineare questa separazione tra i due mondi, persino visivamente Dheepan è continuamente attraversato da ostacoli da superare.
Può trattarsi della porta alla quale deve bussare Yalini per accedere dalla casa in cui vive il vecchio al quale bada, alla stanza dalla quale Brahim gestisce i suoi traffici; della parete dalla quale Cheepan spia l’ombra di Yalini mentre si fa la doccia, della ringhiera contro la quale si appiattisce Illayaal rifiutata dalle sue compagne di scuola.
Lo stesso quartiere è uno spazio chiuso e geometrico, delimitato dalle sagome dei palazzi fatiscenti e controllato dall’alto dalle vedette che gesticono i traffici criminali di Brahim, ripreso come se il film fosse un noir tagliente come una lama.
Eppure è proprio in un luogo simile, una periferia degradata e violenta nella quale le sparatorie sono all’ordine del giorno, che queste tre persone ricercano una vita normale ed il loro spicchio di felicità.
La bambina studiando intensamente al fine di integrarsi a scuola, la donna cercando una propria indipendenza ed infine Dheepan che si dedica anima e corpo al proprio lavoro di portiere provando, per quel che gli è possibile, a migliorare la vita delle persone che abitano nei caseggiati, magari riparando l’ascensore che non funziona mai.
Inevitabilmente i rapporti tra questi tre sconosciuti evolvono e alla fine ci si scopre famiglia, il desiderio di vivere una vita normale prende il sopravvento e la finzione diventa realtà.
Il crudo realismo della prima parte lascia spazio ad un calore crescente che non disdegna momenti ironici.
Ma ecco che per Dheepan tornano i fantasmi del passato nelle vesti del colonnello della guerriglia che gli chiede di tornare a combattere (uno dei momenti più deboli di questo film vorticoso).
Ecco che il contrasto tra l’umanità della casa e la realtà esterna, diventa insormontabile ed il film si avvia verso un finale di azione pura, tra colpi di pistola ed esplosioni, che lascia col fiato sospeso.
Un momento action tra i più belli che si siano visti negli ultimi anni, l’ultimo cambio di tono di un film che riesce a cambiare continuamente aspetto.
Peccato che Audiard non chiuda la sua opera, questa bellissima storia di amore, con l’abbraccio finale tra Dheepan e Yalini ma aggiunga un altro minuto (non di più) così inutile e superfluo da rischiare di rovinare tutto.