Carol
Carol è una donna ricca alle prese con un divorzio. Therese una giovane donna, forse prossima al matrimonio, che lavora in un grande magazzino. Quando le due donne si incontrano per caso nasce una bruciante passione che travolgerà per sempre le loro esistenze cambiandole radicalmente.
 
Ancora una volta, come in Lontano dal paradiso (2002), Todd Haynes ha scelto di ambientare il suo nuovo film Carol nell’America degli anni ’50. L’atmosfera di quel periodo è ricreata alla perfezione, nei costumi, nelle scenografie, negli oggetti e nelle musiche. Probabilmente anche per questa attenzione maniacale ai più minimi particolari molti hanno accusato l’opera di eccessiva freddezza.
A nostro avviso, come in tutta la sua filmografia, il regista ci narra l’ennesima vicenda di presa di coscienza da parte dei propri protagonisti ed ancora una volta, la causa scatenante, è l’accendersi di una passione che, solo incidentalmente, è un amore lesbico.
Ma il fulcro del film non è l’amore scandaloso e proibito (per l’epoca) tra due donne, ma appunto il percorso che le due protagoniste compiono.
Si tratta di una passione totalizzante ed esplosiva che trascina ogni cosa sul suo percorso, l’algida ed aristocratica Carol (Cate Blanchett) e Therese (Rooney Mara), la ragazza del popolo che non sa dire di no, sono animali che disperatamente si dibattono nella loro gabbia sbattendo contro le sbarre che le tengono prigioniere, bramando la loro liberazione con urla strozzate e soffocate da una società algida e chiusa su sé stessa che le vorrebbe rinchiuse in ruoli prestabiliti e che non riesce ad accettare la loro diversità.
Una diversità che, lo ripetiamo ancora una volta, è innanzitutto esistenziale prima ancora che di orientamento sessuale. Carol non riesce ad accettare di essere la brava madre di famiglia col grembiulino assoggettata ai desideri del marito e sottomessa alla sua famiglia e Therese si lascia vivere per la paura di scoprirsi finalmente donna emancipata capace di inseguire i propri sogni senza dipendere dai desideri o dalle aspettative altrui.
Per imbastire un discorso tanto radicale e profondo Haynes ha scelto di utilizzare i mezzi stessi del linguaggio cinematografico in un film quasi perfetto, sorretto da una magnifica e sontuosa regia in cui tutto è calcolato al millimetro.
Carol insomma ribadisce il primato dell’immagine e della sua costruzione rispetto a tutti gli altri elementi ricordandoci, mai come in questo caso, che la forma è sostanza.
Inevitabile che un simile approccio possa essere frainteso e che per molti tutto si riduca ad un mero esercizio di stile incapace di coinvolgere lo spettatore.
Il nuovo lungometraggio di Haynes invece ha una natura del tutto differente ed azzardiamo persino l’ipotesi che alcune scelte che potrebbero sembrare kitsch, come il dialogo sul tetto coronato da una nevicata o il viaggio delle due donne in auto con in sottofondo una canzone natalizia, addirittura svelino persino un senso dell’umorismo spiazzante e tutt’altro che distaccato e distante.
Insomma se Carol può apparire un film freddo è perché, coerentemente con l’epoca storica in cui è ambientato, il sentimento folle che anima le due protagoniste è continuamente soffocato, innanzitutto dalle stesse due donne.
L’intero racconto ribadisce più volte questo concetto affidandosi interamente ai mezzi propri del cinema.
Non è un caso che la storia, ad esempio, si apra con l’inquadratura di una grata; evidente elemento metaforico di quella distanza che separa ed isola i personaggi dal resto del mondo.
Così il litigio tra Carol ed il marito Harge viene ascoltato da Therese attraverso una finestra. La scena del bacio che Dannie cerca di strappare a Therese si svolge dentro una stanza completamente circondata da vetri come se i personaggi fossero in un acquario. Ed ancora il treno che Carol comprerà a sua figlia (metafora della sua stessa vita) è un plastico di una vita perfetta quanto artificiale circondato da una vetrina. Persino nel primo incontro tra le due donne a separarle c’è il bancone del grande magazzino nel quale lavora Therese ed infine il lungo flashback che rievoca l’intera vicenda viene narrato mentre Therese osserva la città, lontana e sfocata, attraverso i finestrini di un’automobile.
Altrettanto importante da questo punto di vista è l’uso che Haynes fa della luce, interamente naturale, con la quale illumina e spesso separa in due l’inquadratura.
L’esempio più lampante di tale suddivisione in due dello schermo si ha nella scena in cui Therese siede al pianoforte in penombra, con una qualità della pellicola quasi sgranata e sfocata, mentre Carol è in salotto interamente illuminata in una inquadratura che sembra uscita fuori da una foto di qualche magazine di moda.
Il gioco sulla messa a fuoco e persino sulla qualità della pellicola tornerà più volte nel corso del film e di volta in volta verrà utilizzato per sottolineare lo stato d’animo dei personaggi.
Sono insomma i mezzi utilizzati caratterizzare la psicologia dei protagonisti di questa storia, l’interazione di essi con gli ambienti a definirli; cinema allo stato puro che si affida alle immagini per costruire il senso del proprio discorso ribadendo la priorità del visivo sul narrativo.
Crediamo che in quest’ottica neanche la passione di Therese per la fotografia sia casuale, anche in questo caso la donna ha bisogno di un filtro, di un obiettivo attraverso il quale guardare la realtà, l’ennesimo ostacolo tra lei ed un mondo distante ed alieno.
Proprio per questo riteniamo che l’ultimo minuto di Carol rischi seriamente di rovinare un’opera tanto raffinata quanto ambiziosa.
Non riusciamo proprio a capire per quale motivo Haynes abbia sentito l’esigenza di concludere il tutto con un lieto finale ridondante, didascalico, inutile e persino fastidioso.
Avremmo preferito che la storia rimanesse sospesa sull’immagine di Therese che si allontana per strada, da sola, nella notte.
Ci sarebbe piaciuto che fosse lo spettatore a dover immaginare il futuro di queste due donne oramai finalmente libere.
In fondo non ci sembra fosse importante sapere se la loro storia d’amore avrà o meno un seguito, Therese e Carol oramai sono comunque due donne che hanno conquistato la consapevolezza di sé stesse.
A liberarle certamente è stato l’amore che le lega ma anche le rinunce dolorose che entrambe hanno dovuto compiere, in particolare Carol che cessa di lottare per rivendicare il proprio ruolo di madre e sceglie definitivamente di essere la donna che è interiormente.
Questo lieto finale invece ci sembra quasi rassicurante e mette pericolosamente in discussione un inno alla libertà e all’autodeterminazione altrimenti perfetto.
Probabilmente si tratta di una concessione al gusto medio del pubblico americano, una captatio benevolentiae in vista degli Oscar o forse lo stesso regista non ha avuto il coraggio di portare sino alle estreme conseguenze il suo punto di vista.
Peccato, veramente un peccato.