12 astronavi aliene appaiono improvvisamente in diversi luoghi del nostro pianeta. Cosa vogliono gli extraterrestri? Sono venuti in pace oppure no? La linguista Louise (Amy Adams) ed il fisico Ian (Jeremy Renner), sotto il comando del colonnello Weber (Forest Whitaker) dovranno rispondere a queste domande prima che la situazione degeneri in uno scontro aperto.
 
Arrival pone non pochi problemi al recensore in quanto è praticamente impossibile parlarne senza rivelare elementi fondamentali della trama. Quindi il nostro spassionato consiglio è di vederlo, prima di leggere qualsiasi recensione, per non rovinarvi la sorpresa.
Il nuovo film di Denis Villeneuve è un’opera complessa e stratificata che mette tanta carne al fuoco, affronta tematiche profonde e pone più domande che risposte. Si tratta di una pellicola che instilla più dubbi che certezze nello spettatore e lo costringe a riflettere su ciò che ha visto. Insomma il classico film del quale si parla con chi lo ha visto nei giorni a seguire cercando di interpretarlo e comprenderlo sino in fondo.
Il primo livello di lettura riguarda il “messaggio stesso” di Arrival. Si tratta di un lungometraggio che affronta di petto il problema del linguaggio e della comprensione, mettendo al centro la necessità di riflettere su sé stessi e cercare un modo per comunicare con gli altri, un invito umanista alla reciproca comprensione e alla collaborazione tra i popoli. Ma questa è solo la superficie del film.
Il linguaggio che gli alieni cercano di insegnare agli uomini è di fatto circolare ed ha a che fare con la loro concezione del tempo e con le teorie di linguistica secondo le quali la lingua che parliamo influenzi il nostro modo di pensare. Detto altrimenti, per comprendere perché gli alieni siano arrivati, Louise dovrà prima comprendere il loro linguaggio ed attraverso questo la loro concezione del tempo.
Tuttavia non abbiamo a che fare con un’opera che affronta i paradossi temporali, perché, nonostante le apparenze, gli alieni non viaggiano nel tempo quanto piuttosto hanno una visione della realtà in cui tutto è compresente nello stesso momento. Ciò che accadrà è già accaduto nel passato e sta accadendo ora. Qui sta il primo grande problema di Arrival. Se il futuro è di fatto già scritto e la conoscenza della lingua aliena rappresenta una porta per conoscerlo e dunque influenzare il presente, vuol dire anche che non c’è alcuna possibilità di incidere su di esso. Verso la fine della storia Louise chiede a Ian se, conoscendo ciò che accadrà, lui avrebbe fatto qualcosa per cambiare il futuro. In realtà si tratta di una domanda priva di senso all’interno della teoria messa in piedi dal film. Louise non ha nessuna possibilità di evitare la tragedia che sa che gli capiterà poiché il suo futuro è già scritto ed è in qualche modo già accaduto e proprio ciò gli ha permesso di comprendere la lingua degli alieni ed al tempo stesso scongiurare una guerra.
Rimane da vedere se la trama del film sia coerente con questo assunto di base ed è qui che, come si suol dire, casca l’asino e la sceneggiatura mostra alcuni dei suoi limiti più evidenti, sia per quanto riguarda il modo in cui Louise comprende la lingua aliena sia l’episodio della telefonata al generale cinese. Ci rendiamo conto che detto così non è molto chiaro ma ci è impossibile dire di più senza svelare ulteriormente la trama e rovinarvi la visione.
Proprio questa messa in discussione del principio del libero arbitrio mina anche la parte più umanistica della storia, quella che riguarda appunto Louise e la sua tragedia personale proprio perché, come già detto, in realtà non c’è nessuna possibilità di evitarla.
Villeneuve ci mette davanti ad una visione del tempo nella quale il futuro è uno ed uno solo ed è impossibile cambiarlo. Possiamo accedere ad esso solo ed esclusivamente al fine di compiere oggi le azioni che daranno vita a quelle conseguenze. Tutte le nostre certezze vengono messe in discussione, prima tra tutte l’idea che siano le nostre scelte a costruire la nostra vita. Insomma più che un dono, a conti fatti, quello fatto dagli alieni sembra una dannazione.
Arrival oltre ad essere una riflessione sul libero arbitrio e sul linguaggio e la necessità ci comprendere/comprendersi, a nostro avviso si interroga anche sul cinema stesso, richiamando alla mente il mito della caverna di Platone nel modo in cui avvengono le comunicazioni tra umani ed alieni, ombre proiettate su uno schermo come fossimo spettatori al cinema.
Insomma come detto la carne al fuoco è tanta e alla fine abbiamo più dubbi che risposte. Proprio qui sta il fascino di questo film, oltre che nel magnifico spettacolo messo in scena da un regista capace di ipnotizzare con le sue immagini e al tempo stesso girare un’opera visivamente suntuosa eppure intima ed umana, girata in tre ambienti tre concentrandosi sulle emozioni.
Questa incredibile bravura fa sì che alla fine le pecche del film passino in secondo piano. Tuttavia Arrival non è privo di difetti ed il più grande sta in una sceneggiatura con passaggi che a pensarci troppo appaiono ridicoli a cominciare dal primo incontro tra Louise ed il colonnello Weber, un’insopportabile “americanata” come tanti altri momenti del film risolti frettolosamente in maniera superficiale.
Insomma alla fine Arrival non risponde alla domanda che tutti si pongono, cosa farà Villeneuve con Blade runner 2049, sequel del capolavoro di Ridley Scott. Sulla carta, a nostro avviso, si tratta di un progetto inutile e fastidioso come tanti degli inutili sequel, remake e rifacimenti con i quali una Hollywood sempre più in crisi ci sta invadendo. I difetti di Arrival ci fanno pensare che Villeneuve non sarà in grado di competere con le questioni messe in campo da Ridley Scott e da Philip Dick ma al tempo stesso l’ambizione messa in campo dal suo ultimo film, al netto di tutti i difetti, non possono che destare curiosità e speranza.