In primo piano il corpo di Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) pende da un albero, il cappio stretto attorno al collo, i piedi che disperatamente si aggrappano al terreno per non morire soffocato. Lentamente sullo sfondo cominciano ad emergere gli altri schiavi, donne che stendono i panni, uomini che trasportano carriole, bambini che giocano; nessuno fa caso a quel corpo. Steve McQueen, come si conviene ai grandi registi, riesce a concentrare in un’unica immagine, uno splendido campo lungo, tutto l’orrore della schiavitù, l’annientamento totale di tutto ciò che c’è di umano in noi. La vita nei campi di cotone del sud degli Stati Uniti diventa una questione di mera sopravvivenza, ogni traccia di umanità viene sistematicamente cancellata, l’essere umano ridotto a puro corpo del quale abusare con efferata crudeltà. A differenza di altri universi concentrazionari nei campi di cotone ci si può spostare liberamente, tant’è che Solomon viene regolarmente spedito dalla padrona Mary Epps (Sarah Paulson) a fare compere in città, ma non si può fuggire. Se Solomon, fortuitamente, non incontrasse l’abolizionista Samuel Bass (Brad Pitt) il suo destino sarebbe lo stesso di Patsey (Lupita Nyong’o), nata e cresciuta nei campi di cotone, china ogni giorno sul raccolto per raggiungere le sue 500 libre di prodotto, oggetto delle continue violenze sessuali del sadico padrone Edwin Epps (Michael Fassbender attore feticcio di McQueen), e che non ha neanche un pezzo di sapone per lavarsi, frustata sino allo sfinimento. A frustarla, in una delle scene più crude e dirette del film, sarà proprio Solomon costretto da Edwin; si giunge persino a questo quando si è privati della libertà e di ogni dignità, la vittima diviene anch’essa carnefice pur di salvarsi la vita. In molti hanno lamentato che il terzo lungometraggio di McQueen scelga una narrazione da cinema classico, semplice e lineare, ma a conti fatti anche i precedenti Hunger (2008) e Shame (2011) sceglievano questo tipo di percorso. Da sempre l’anima del cinema di McQueen risiede altrove. Innanzitutto nella forza delle singole inquadrature, nella sua capacità di far interagire i personaggi con l’ambiente che in 12 anni schiavo è il vero protagonista del film, che si tratti di una cella oscura all’interno di una fabbrica abbandonata o di una nave diretta verso il sud, di una piantagione di cotone o di una ricca casa coloniale nella quale gli schiavi sono costretti a ballare per il sadico piacere dei loro padroni. Verrebbe da chiedere a chi si è lamentato di questa narrazione “classica” da quanti anni era che non vedevano un regista capace di usare il campo lungo come nella scena citata all’inizio di questo articolo. Per non parlare di tutto il viaggio in nave scandito e montato seguendo il ritmo delle inquadrature delle pale del battello a vapore che girano freneticamente portando verso un’ineluttabile destino il loro carico di corpi umani. Tuttavia ancora una volta l’attenzione del regista è interamente concentrata sul corpo dei suoi attori. Il cuore di Hunger erano i corpi sporchi di feci dei detenuti dell’IRA, Michael Fassbender alias Bobby Sands che si lascia morire di fame, in Shame i continui rapporti sessuali del protagonista  Brandon Sullivan (ancora una volta Fassbender). In 12 anni schiavo le schiene segnate da violenti colpi di frusta, gli uomini e le donne nude costrette a lavarsi in un sudicio cortile, gli schiavi mostrati come merce, come animali nella casa del mercante di uomini Theophilus Freeman (Paul Giamatti). Ed ancora il delirio di onnipotenza del sorvegliante John Tibeats (Paul Dano), le buone maniere del primo padrone di Solomon, William Ford (Benedict Cumberbatch) e soprattutto il sadismo efferato e le violente compulsioni sessuali di Edwin Epps. 12 anni schiavo è un film forte e duro, percorso da attori magnifici nei loro ruoli, deciso a denunciare la parte oscura della storia degli Stati Uniti senza sconti per nessuno e non è un caso che ad un certo punto del film gli schiavi, all’interno di un bosco, incontrino dei nativi americani. Questa è la storia degli Stati Uniti, un paese costruito sul massacro sistematico di un’intera popolazione che è poi divenuto ricco grazie all’annientamento fisico e psicologico dei neri. Per questo motivo, più che per le sevizie fisiche, psicologiche e sessuali alle quali sono sottoposti gli schiavi protagonisti di questa pellicola, è difficile rimanere indifferenti alla visione di 12 anni schiavo. Ed anche per questo sarebbe bello se la Notte degli Oscar in qualche modo premiasse il coraggio di un regista che persino nel finale del suo film (la parte più debole di tutta la pellicola) rinuncia a qualsiasi intento epico e ci mostra un ritorno a casa freddo, quasi svuotato di qualsiasi emozione, perché forse è impossibile guarire dalle cicatrici che ci si porta dentro, siano esse fisiche o psichiche, soprattutto quando indietro ci si è lasciati lo sguardo supplice e privo si speranza di Patsey destinata a continuare a vivere in un quotidiano inferno sino a quando non verrà sepolta in una tomba anonima nel cimitero di quella piantagione che per lei ha rappresentato il mondo intero.