Recensione di   Beatrice Bianchini Beatrice Bianchini

La ligne

(Film, 2022)

Ogni madre abita il confine sottilissimo che separa la vita dalla morte

L’RV 608 Nisi Dominus di Vivaldi accompagna l’incipit in slow motion, del litigio tra due donne, una figlia che colpisce con uno schiaffo la madre facendole battere la testa sulla tastiera del pianoforte.
Per questo Margaret è costretta a misure restrittive: per tre mesi deve stare a 100 metri di distanza dalla madre, nonostante ne esca anche lei fortemente contusa e con un visibile taglio sul sopracciglio.
Deve lasciare la casa dove vive con la famiglia, e dove in realtà occupa il garage, in “linea” con la misura restrittiva familiare.
Conosciuta dal villaggio, anonimo e provinciale, come una ragazza violenta, scatena la curiosità e la malvagità dei bambini nonché compagni della sorella minore Marion, presente durante l’aggressione.
Una pletora di piccoli bipedi “perversi e polimorfi”, come li definiva Freud, perfidi e fastidiosi, della vallata fredda e fangosa ai margini di un canale umido e sterile di umanità, si esercitano in miseri atti di bullismo propedeutici alla costruzione dell’età adulta.
La madre Christina, ex presunta grande musicista, talento mortificato dalla maternità e per questo convertita all’insegnamento, perderà l’udito, anche se non completamente e forse neanche parzialmente.
Userà questo incidente per rimarcare quella linea che divide la sua vita, tra il talento e l’impossibilità di cavalcarlo.
Non si comprende cosa l’abbia indotta a partorire tre figlie evidentemente non desiderate. Ricorre continuamente a nuove storie sentimentali compresa l’ultima vissuta in modo adolescenziale e sfacciato con il giovane Hervé.
Marion, la piccola di casa, che canta e ama come la sorella/”madre” maggiore,  finisce per parlare solo con Dio per chiedergli aiuto e conforto in una situazione così estrema.
Un noir enigmatico, insidioso e a tratti fuorviante, è lo spirito narrativo con il quale la Meier costruisce le linee labirintiche, implicite e a tratti grottesche del tessuto familiare. 
La linea di sopportazione;
la linea che delimita l’essere una genitrice biologica senza essere una madre come nel precedente Sister;
la linea di confine del senso di responsabilità, del senso di colpa, della vittimizzazione, della rivendicazione, del limite, del pudore, della dignità, della sottomissione, della violenza, della insubordinazione, della subordinazione…;
una linea tutt’altro che invisibile che questo film percorre con assoluta evidenza;
una linea come metafora delle tracce interiori indelebili che possono solcare il vissuto di tre figlie così diverse di una madre così identica al proprio disturbato riflesso narcisista.
Le stesse linee e la stessa musica che accompagna la cittadina/villaggio Dogville di Lars von Trier, che racconta la miseria umana, l’orrore familiare e il tentativo violento di riscatto.
Nonostante tutto in entrambi i lungometraggi il senso di colpa e  la subordinazione che i rapporti familiari producono riescono a scatenare reazioni tuttavia autolesive e umilianti.
L’insubordinazione di Mary come quella di Margaret  produce un lungo conflitto esteriore e interiore, disturbante e dannoso, anche distruttivo fino al punto in cui si intravede l’evento catartico di chi riesce a tacere e guardare per individuare la via d’uscita dall’insidioso labirinto del disagio, del malessere e del guasto che la famiglia e la comunità genera.
La violenza sorda di un amore assente, crudele e impietoso che produce la colonna sonora della ricerca impossibile di una compensazione dialettica e emotiva.
 
Ogni madre abita il confine sottilissimo che separa la vita dalla morte