"C'è un pesce che trascorre la vita a nuotare combattendo le acque che cercano di gettarlo sulla terra ferma. Perché l'acqua lo rigetta. L'acqua non lo vuole. Questo pesce sofferente, così attaccato all'elemento che lo repelle, dedica tutta la sua energia alla conquista della permanenza. Non lo troverai mai nella parte centrale del fiume, ma sempre accanto alle rive."
La parabola profetica che Lucrecia Martel mette in bocca ad un indios suicida, durante un interrogatorio, ben si adatta e allo stesso tempo ci prepara e ci ammonisce sul destino di Don Diego de Zama, un funzionario e amministratore della Corona spagnola catapultato in una provincia remota dell'Argentina del XVIII secolo. Il dramma è tratto dal best seller di Antonio Di Benedetto, un classico della letteratura latino americana (che purtroppo non ho ancora letto) e il tono della narrazione è lento, scandito e conferisce alla vicenda del corregidor la nobiltà di un'antica maledizione che si dipana come una profezia sinistra. L'uomo è in attesa di ricevere una promozione e un trasferimento che lo porti a Lerma, accanto alla agognata famiglia. Quel trasferimento non arriverà, quello che sta in mezzo è un misto di ansie, attese, desideri frustrati, aspettative mal riposte e prepotenze coloniali e machiste. Un tratto del sud america crudo e realista difficile da trangugiare per uno spettatore occidentale, e che stride con la bellezza agghiacciante di campi aperti maestosi, ma sempre placidi e ordinati. La corona spagnola regna, ma non governa tra riti ampollosi e parrucche consumate. Presto capiamo che è Don Diego quel pesce respinto dalle acque della terra natia, inospitale per un funzionario non abbastanza spagnolo per ottenere il prestigio dell'ufficiale e non abbastanza indigeno per ottenere il rispetto dalla popolazione locale. Egli non cessa di smuovere energeticamente come può gli affari, le relazioni, ma proprio come quel pesce non riesce per tutta la sua esistenza ad uscire dal margine, dal confine in cui è relegato. La palude stagnante e limacciosa in cui amministra la giustizia, non senza sforzo, pone difficoltà di ogni genere e Martel non tralascia di marcare la fatica nei tratti di Don Diego e di tutte le autorità. I nemici sono sfuggenti: il colera, il caldo, il banditismo. Nelle stanze che scimmiottano con ironia quasi bunueliana i palazzi del governo, ogni attesa diventa agonia e decadimento, lenta degradazione e putrefazione. Tutto possiede la consistenza di uno stagno. Ogni desiderio di possesso è svilito e ridicolizzato, tutto è vanità di agire e non esiste alcun reale presidio sui territori conquistati. Tutto sfugge alla Corona in periferia. E come un gruppo di sintomi eterogenei vengono spesso associati ad un'unica malattia quando essa è tanto sconosciuta quanto difficile da combattere, così quel senso di inanità e quella frustrazione protratta viene sussurrata dai più e attribuita al fantasma del bandito Vicuna Porto. Quel nome che passa di bocca in bocca è sfidante e nomina le angherie, i vuoti di autorità, ma anche la possibilità di smarginare la propria condizione, sfidare finalmente la periferia della propria condizione, lottare una volta per tutte col fantasma di ciò che trattiene lontano dai propri desideri e dalle proprie aspirazioni. Una parola che parla di avventura e di riscatto.
Così el corrigidor parte con un manipolo di avventurieri per una pericolosa missione, alla ricerca di Vicuna Porto come della propria salvezza e del proprio rilancio. Ma anche in questo caso niente va come si attendeva e dopo aver subito un imboscata è fatto prigioniero degli indios. Rilasciato, reduce, conosce ancora un tradimento venendo a sapere che è proprio tra i suoi compagni che si nasconde il bandito Vicuna. Qui di fronte al destino di dolore e di morte che si prospetta, Vicuna ha quasi pietà del suo avversario di cui si è fatto beffe per tanto tempo, e chiede a Don Diego di indicare a lui e ai suoi uomini la strada per El Dorado. Davanti all'ultimo voltafaccia a quello che forse potrebbe risparmiargli altro dolore e sofferenza, quando finalmente è chiesto a Don Diego di illudere e tradire, donchisciottescamente, il protagonista recupera un profilo quasi eroico mentre si erge e proferisce "faccio per voi ciò che nessuno ha fatto per me. Dico no alle vostre speranze." Dopo aver subito infinite sopraffazioni da donne, superiori, amici, nel momento in cui avrebbe potuto tradire e illudere uomini che non sono nulla per lui, se non addirittura platealmente ostili, quasi per misericordiosa empatia per la condizione umana pronuncia un no bruciante a tutte le illusioni e alle false speranze.
Dopo aver subito l'amputazione di entrambe le braccia per quel duro e terribile no, l'ultima immagine potentissima, carica di significati e di riscatto, mostra Don Diego grigio di morte, segnato e mutilato, ma vivo su una zattera guidata in una palude verde brillante. Un bambino lo scruta per un po' e poi si rivolge a lui “Quieres vivir?... Quieres vivir?… ”
Voglio credere di aver visto un cenno di assenso in quella palude di vita e non di morte. Una festa per gli occhi quegli ultimi fotogrammi di speranza, dopo tanta disillusione e disinganno.