Abbraccio con assenza

 

Per comprendere qualcosa di umano, di personale, di collettivo, è necessario raccontare una storia.

J. Ortega y Gasset

 

 

 

 

La finestra è in realtà uno specchio.
Lui osserva sé stesso nel mondo.
L’albero si agita con insostenibile leggerezza.
Le sue foglie, le sue voglie, i suoi desideri, i suoi bisogni, i suoi ricordi, i ricorsi, i rimorsi, i morsi della fame di abbracci, di mani sulle guance, di riconoscere e di essere riconosciuto, di sentirsi a casa nell’universo, di sentire l’universo espandersi, di essere parte del cosmo che giace sulle labbra di una figlia che bacia suo padre tra le lacrime, perché le ha chiesto “e tu chi sei?”.
Lui osserva quell’albero e si riconosce. Si appropria di quel riflesso. Di quei rami, di quelle foglie accarezzate dal vento. Ma il vento della sua vita è ormai tempesta. Quel fragile e delicato castello di carte che è l’identità si trova immerso in una bufera che conduce all’inevitabile oblio.
Raffiche su raffiche di entropia.
Disordine su disordine.
Oscurità dentro oscurità
Ma a fare più male sono i piccoli sprazzi di luce.
La speranza è sempre il male più atroce per un condannato a morte.
La promessa dell’alba è la sofferenza più grande per un condannato a notte.
E lui si trova in una notte senza fine, senza inizio, senza niente.
Uno stordente buio, nel quale però ancora palpita il cuore di uomo capace di sognare l’aurora.

L’identità umana è narrazione.
Siamo storie, in ogni senso.
E tutto il mondo è un palcoscenico, come dice Jacques in uno dei monologhi shakespeariani più suggestivi. Siamo attori che recitano mille parti, entriamo e usciamo continuamente di scena. Interpretiamo ruoli, indossiamo maschere (il solo modo possibile per esprimere la propria autenticità, per essere sé stessi nel modo più vero).

L’ultima scena infine, a chiuder questa strana storia,
piena di eventi, è la seconda infanzia.
Il mero oblio.
Senza denti, senza occhi e senza gusto.
Senza niente.

L’Alzheimer è il tramonto dell’io, l’eclissi totale del sé, la morte dell’identità, perché l’identità dell’individuo si definisce nei rapporti con gli altri. Se lui fosse vissuto in mondo senza persone non sarebbe stato malato, perché non avrebbe avuto nessuno a cui raccontare sé stesso. Ma ora invece c’è sua figlia che gli tiene la mano, è appena tornata da Parigi, e piange mentre pensa che suo padre dimenticherà questo gesto, il suo volto, il colore dei suoi occhi o di quella volta che da bambina le aveva insegnato come cucinare il pollo.
È nelle relazioni con gli altri che ognuno di noi edifica sé stesso. Nessun uomo è un’isola, come diceva John Donne. Ma adesso lui è un atollo, e di tanto in tanto il mare lo sommerge completamente. Smarrito, solo, privato anche della sua stessa presenza. «Sarei anche più solo senza la mia solitudine» recita un verso di Emily Dickinson. Ora lui ne è privo. Un naufrago alla deriva nell’oceano sconfinato di una storia che non gli appartiene più.

E poi arrivano quegli istanti di realtà, di luce, di apparente lucidità, che fanno più male dell’avanzare inesorabile dell’estinzione. Perché mi ricordo che non ricordo e so di sapere ma non so cosa, dimentico di dimenticare che non riesco a ricordare. Fa male. A me, a mia figlia, ai miei cari. A quell’uomo, vecchio e stanco, che vedo riflesso alla finestra che affaccia sul giardino. Lo riconosco: è un albero. E sta perdendo le foglie. Ho paura. Sono terrorizzato, non capisco cosa succede. Ieri avevo dodici anni, giocavo nel vento. E mi ricordo di mia figlia, di quell’incidente, perché mi brucia il cuore? Chi sono questi estranei al mio fianco? Voi forse non lo sapete, ma io sono un grande ballerino. Come faccio a sapere che ore sono senza il mio orologio? A Parigi parlano solo francese. E i corridoi della casa, i corridoi della mente, un lento sparire, un intrecciarsi di trame sempre più intenso, irreversibile, come un fiore che sboccia dentro un temporale, che appassisce in primavera, come questi occhi che mi guardano e mi vogliono bene, ma non so a chi appartengono. Io non sono qui.

Lui è Anthony. Un albero, una finestra, un bambino impaurito che chiama la mamma, un uomo alla fine dei suoi giorni, un riflesso di quello che una volta era stato. Lui, uomo alla deriva nel maelstrom della demenza, è l’unico personaggio di cui non dubitiamo mai. Di tutti gli altri non siamo mai certi. Noi assumiamo la sua prospettiva. I volti si confondono. Il mondo crolla pezzo dopo pezzo, il cosmo in corrosione ingloba ogni secondo che passa (e che non passa mai). Perché il tempo accelera e si cristallizza, l’eternità si fa istante e l’attimo dura per sempre.

Lo spettacolo della vita continua, è ancora in corso, ma sul suo palcoscenico è già calato il sipario. E il retroscena, per un crudele gioco del destino, arriva sulla scena. L’Alzheimer comporta anche questo. La dissoluzione del sé e la frammentazione della memoria si accompagnano spesso al disfacimento delle dinamiche sociali, delle regole non scritte, delle tacite convenzioni, ovvero il collante sociale. E anche se non viene mai lasciato solo, il malato viene lasciato solo anche da sé stesso. Fantasmi di carne.

Provo a ricordare ogni cosa, ma tutto sfuma, scivola via, tutto è opaco, in frantumi, e i frammenti si intrecciano in una danza che non riesco a capire.
Identità. Memoria. Corpo. Tempo.
Chi sono? Che ci faccio qui? Dov’è il mio orologio?
Sento le foglie che cadono una dopo l’altra.
Ma sono in gran forma, ve l’ho detto che sono un grande ballerino?
Come lo spazio bianco tra le vignette, gli sprazzi di luce sono istanti che separano tasselli di quel mosaico impazzito che è la vita. Tutto ciò che vorrei è dimenticare di aver dimenticato. E finalmente vivere come la libellula o la rugiada: senza alcuna identità.

Lo specchio è in realtà una finestra.
E io osservo un estraneo che compie i miei stessi gesti.
Chi sono questi sconosciuti che mi stanno accanto?
Lei dice di essere mia figlia, ma io so che non è lei.
Ma taccio. Il suo palmo sfiora il dorso della mia mano.
Chiudo gli occhi, forse sorrido, qualche lacrime mi riga le guance.
Raccontatemi la mia vita. Ditemi chi sono, prima ancora di dirmi chi siete.
Fallo tu, bambina mia. Chiunque tu sia, sei l’amore.
Voglio che sia tu a condurmi in questo altrove.
Mani nelle mani.
Domani nel domani.
Amore.
Mio.