Noi non finiremo mai

 

 

E dal suo sorriso capii

che quella cupa galleria era l’Inferno

“Strano amico”, dissi,

“qui non c’è motivo di piangere”.

“Nessuno”, disse l’altro,

eccetto gli anni non vissuti,

la perdita della speranza.

Qualunque sia la tua speranza,.

Io sono il nemico che tu hai ucciso,

amico mio.

Ti ho riconosciuto in questa oscurità.

Perché eri così corrucciato ieri

mentre mi colpivi

per uccidermi.

Io cercai di proteggermi,

ma le mie mani  erano fredde e pesanti.

Riposiamo ora….

W. Owen, Strano incontro

 

 

 

 

 

 

Se la nostra pecora è felice,
il sole tutti riscalda e benedice.
Se la nostra pecora è infelice,
la notte è oscura e traditrice.

 


Il vento accarezza l’erba.
La città è lontana, siamo nell’entroterra, le montagne abbracciano ogni cosa.
Il cielo è così vicino che stordisce. Il respiro della terra è unità di misura dei giorni.
Eternità e attimo si confondono, fino a prendere l’una il significato dell’altro.
Islanda. Terra di ghiaccio e di fuoco.
Ghiaccio: perché siamo a pochi passi dal Circolo Polare Artico, perché la neve appartiene a tutte le stagioni, perché c’è qualcosa di unico nel processo di condensazione dei desideri apparentemente inesprimibili.
Fuoco: i vulcani, i geyser, le sorgenti termali, vene incandescenti che scorrono ovunque, perché il battito di ciglia della natura non conosce pietà, perché c’è qualcosa di unico nel processo di esplosione dei desideri lasciati ad asciugare al sole.
L’erba si piega sotto le carezze del vento. Chilometri e chilometri di pura assenza. Il rumore del silenzio pervade ogni suono, ogni ambiente, ogni colore. Le estati sono tiepidi e brevi, gli inverni sono gelidi e lunghissimi. In una valle immensa e dalla bellezza selvaggia, circondata da vette imperiose, lontana da anni luce dalla luce degli anni di tutti noi, ci sono due case, distanti poche decine di metri l’una dall’altra. Appartengono a due fratelli, entrambi allevatori di pecore, che conducono la stessa vita, hanno gli stessi ritmi, consumano gli stessi cibi, sono della stessa natura, ma si odiano e non si parlano da quarant’anni.
Gummi e Kiddi.
Si odiano, come solo due fratelli possono odiarsi.
Ormai vecchi, entrambi soli, non si sono mai sposati, non hanno figli, non hanno niente, eccetto le loro amate pecore. Il rapporto che hanno con questi animali è davvero unico, speciale, prezioso. Sono due allevatori induriti dal freddo e da una vita di sfiancante e continuo lavoro, condividono la stessa terra, le loro pecore appartengono alla stessa, antichissima, pregiata razza: Bolstad. Sono le migliori, e loro due sono i migliori allevatori di tutta la valle.
Eppure non vanno d’accordo, non si sopportano, non si rivolgono la parola da quaranta, lunghissimi, gelidi anni.
Il vento disegna destini inafferrabili tra i fili d’erba.

Seguiamo la vicenda dalla prospettiva di Gummi.
Un lungo abbraccio carico di un affetto che non si può capire. Gummi abbraccia le sue pecore, le coccola, le stringe a sé, «ti voglio bene» dice a ognuno di loro. Sorride.
Il film si apre così. Con un abbraccio. Sincero, affettuoso, dolce, ma anche (e per questo) primitivo, viscerale, fuori da ogni logica.
Il cielo si colora di ghiaccio.

C’è una staccionata.
Una lunga sequenza di paletti, recinti e sbarre di legno: è il confine tra la terra di Gummi e quella di suo fratello Kiddi.
Sono identici, perché condividono lo stesso stile di vita e conducono la medesima esistenza, eppure profondamente diversi: Gummi è calmo, serafico, attento, mentre Kiddi è più estroverso, più istintivo e impulsivo.
Il film ci dà piccole e disordinate informazioni (le mie preferite), grazie alle quali possiamo capire che i loro defunti genitori aveva preso due decisioni differenti. Il padre, come probabilmente ogni uomo razionale avrebbe fatto, aveva deciso di affidare la sua terra e le sue pecore al suo primogenito Gummi, il più saggio e affidabile. Ma la madre gli strappa una promessa: lasciare che anche suo fratello minore avesse una parte della terra e delle pecore da allevare.
Ma non sappiamo altro. Non sappiamo cosa abbia davvero portato a quarant’anni di silenzio. Le poche comunicazioni che intrattengono avvengono tramite lo scambio di messaggi scritti su fogli di carta, che il fedele cane pastore di Kiddi consegna ogni volta all’uno e all’altro.
Cosa può esserci di più gelido di un cuore che rifiuta di battere e di battersi?
Chissà quante parole sono sepolte nei loro cuori. Chissà quante carezze morte, in quelle mani.
Quanti sospiri trattenuti, quante carezze abortite, quanto freddo, quanti giorni, quanti sbagli.
Quaranta anni. Senza dialogo, senza sorrisi. In completa solitudine, vivendo l’uno accanto all’altro.
Gummi, Kiddi, le loro pecore.
Il cielo in frantumi si disperde nel vento.

Rams: “arieti”.
L’ariete – o montone – è il maschio della pecora. Ma è anche la metafora perfetta per descrivere i nostri protagonisti. E non solo perché sono vecchi, pelosi e con la barba lunga e disordinata, come il vello delle loro pecore, ma anche perché appartengono entrambi a una razza in estinzione, di cui sono gli ultimi due esemplari, almeno in quella valle: allevatori dotati di una sensibilità unica, profondi conoscitori di ogni palpito della natura, amanti appassionati e passionali del proprio mestiere, che in realtà è tutta la loro vita, perché loro amano prendersi cura delle pecore, non sanno fare altro, sono i migliori. E stanno per estinguersi.
Rams è quindi una storia di resistenza, un racconto di ghiaccio e di fuoco.
Ghiaccio: perché siamo a pochi passi dal baratro della fine, perché quarant’anni di silenzioso morire non lasciano scampo, perché lo strato di gelo che avvolge il cuore degli uomini può non sciogliersi mai.
Fuoco: perché malgrado e grazie a ogni sguardo, perché nonostante e a causa di ogni silenzio, perché sebbene l’assenza, benché l’antagonismo, il sangue, la famiglia, l’amore avuto e quello sepolto dentro raffiche su raffiche di entropia, c’è un cuore che pulsa e continua a bruciare.

In una piccola comunità, per quanto sia esteso il territorio che la contiene, ci si conosce praticamente tutti. È una cosa bella, rassicurante, ma che può risultare asfissiante (non è un caso, per esempio, che i rapimenti alieni avvengano sempre in piccole comunità sperdute, ma questo è un altro discorso). A Gummi e Kiddi, però, non interessa nulla, tranne il benessere delle loro pecore.
Arriva il giorno del concorso annuale per il miglior montone. Tutti gli allevatori portano il proprio esemplare migliore. I due fratelli sono tra i partecipanti, come ogni anno. E come ogni anno sono i favoriti. Gummi è secondo, Kiddi è il vincitore. Vince “per un muscolo”. Tutti festeggiano, ridono, brindano, bevono, tranne Gummi.
Rams, film in cui si parla pochissimo, una storia con dialoghi rari ed essenziali, è un racconto fatto di sguardi bellissimi, profondi, significativi. Gli occhi di Gummi persi nel vuoto sono perfetti.
Il suo sguardo e quello di Kiddi non si incrociano mai, eppure pesano l’uno sull’altro. Si guardano senza guardarsi. Come i quarant’anni di silenzio che li separano e li tengono insieme in una danza immobile.
(Alcuni degli sguardi presenti in questo film sono tra i più belli che abbia mai visto, tra i più penetranti e significativi che abbia mai vissuto).

Poi arriva l’imprevedibile.
Gummi si accorge che il montone del fratello ha qualcosa che non va, sembra malato.
Intuisce subito cosa possa essere, e ne resta terrorizzato.
Potrebbe essere la scrapie, un virus micidiale che colpisce gli ovini, una malattia infettiva neurodegenerativa che attacca il cervello e il midollo spinale, è letale e incurabile.
Quando i veterinari andranno a prelevare l’ariete di Kiddi non potranno che confermare il timore di Gummi. Questo significa una sola cosa per i due fratelli, e per tutti gli allevatori della valle: l’apocalisse.
Tutte le pecore della valle devono essere abbattute. Tutti gli attrezzi, i fienili, il cibo e tutto ciò che è entrato in contatto con gli animali deve essere sterilizzato o bruciato. Forse ci vorranno almeno due anni perché alcune pecore possano essere riportate nella valle.
È la fine. Non si sopravvive a una cosa del genere.

«Tu hai sterminato la razza dei Bolstadir!».
È Kiddi che urla in faccia al fratello tutto il suo risentimento, la sua rabbia, la sua frustrazione.
Le loro sono le uniche pecore Bolstad dell’intera Islanda, il ceppo più antico, più forte, più puro.
Finiranno per sempre, e loro finiranno insieme alle loro pecore.
Quando tutti gli allevatori, riuniti, decideranno che è la scelta più saggia da fare, per poter avere la speranza di poter un giorno risorgere (anche se alcuni di loro decideranno di abbandonare l’allevamento e cambiare vita), Gummi e Kiddi reagiranno in maniera diversa.
Ma come si sopravvive a una catastrofe di tale portata?
Come si può pensare a un possibile domani quando tutto ciò che ami sta morendo?
Le cose finiscono, di solito all’improvviso.
Questo vale un po’ per tutto. Il futuro arriva sempre senza avvertire.
Il suo invito a cena non si può rifiutare.
Spesso, però, il pasto siamo noi.
Quasi sempre, siamo ancora vivi quando inizia a mangiarci.
No, non si sopravvive a una cosa del genere.
Perché non è la morte, alla quale si può dare un senso, persino un significato comprensibile e accettabile. Questa è l’estinzione: cioè la morte della morte.
L’orizzonte sparisce dentro un vortice di nulla.
Kiddi si rifiuta di collaborare, si ribella. Una notte, ubriaco, spara alla finestra della casa di Gummi, urlando insulti e vomitando rabbia.
Gummi (ancora quel suo sguardo) si alza dal letto e corre in cantina, adora questa sequenza.
Kiddi continua a lasciarsi andare alla disperazione e al rancore.
La squadra allestita dal comune, guidata da Katrin, la veterinaria della valle, ha il compito di abbattere tutti i capi di bestiame del territorio. Kiddi si oppone e viene portato via dalla polizia. Gli altri allevatori acconsentono all’operazione.
Gummi fa qualcosa di completamente diverso.
In una scena struggente e bellissima, vediamo quest’uomo silenzioso e dallo sguardo carico di dolore entrare nella sua stalla, è solo circondato dalle sue pecore. Le abbraccia, le accarezza.
Poi, con la morte nel cuore, lo fa. Le uccide.

Trema. Piange. Si lava via il sangue delle sue amate pecore dalle mani.
(Quanto coraggio ci vuole per compiere un gesto del genere?).
(Come ci si può sentire dopo aver ucciso tutto ciò che ami, sapendo che è l’unica, dannata, cosa giusta da fare?).
(Come si può continuare a vivere dopo che la tua vita muore?).
Kristin e la gli altri aprono le porte della stalla e non credono ai loro occhi.
«Le ammazzo io, le mie pecore», dice Gummi.

Il silenzio si fa ancora più assordante.
L’estinzione è arrivata. La morte è morta.
L’aria è immobile. Il cielo è crollato in un milione di pezzi.

Ma arriva la notte.
Vediamo Gummi che entra nella cascina a prendere della paglia e del fieno. Furtivamente li porta in casa, poi scende in cantina. E allora capiamo tutto.
Gummi ha salvato otto pecore. Le ha lasciate vivere. Non poteva lasciar estinguere i Bolstadir, la sua vita. Sette pecore e un ariete. Perché la vita deve continuare, perché la scrapie non vincerà, perché nessuno può venire qui a dirmi che la mia vita deve finire.

Arriva l’inverno.
Bianco, freddo, ghiaccio, neve, solitudine, ricordi, assenza, domande, possibilità, silenzio, buio, lacrime, ubriacarsi di luna, pensare a quella volta in cui, i giorni tutti uguali, la ripetizione de gesti, rituali d’animo, distruggere l’altare dedicato al dio del futuro a ogni costo, fare a meno di tutti, spegnere il cuore, continuare a esistere, diventare invisibili, come un agnello in mezzo alla neve.

Kiddi è sempre più alla deriva.
Un signore lo trova svenuto tra la neve, bussa alla porta di Gummi, e insieme lo soccorrono.
(L’inverno è così freddo).
Siamo nei giorni di Natale.
Kiddi è nudo nella vasca piena d’acqua, privo di sensi.
(Il freddo penetra ogni cosa).
Gummi parla con questo signore, e scopre che è un agente addetto alla disinfestazione degli ovili.
Ancora una volta, il suo sguardo. Sta pensando alle pecore in cantina. Se lui lo scopre sarà finita, le verranno a prendere, le uccideranno. No, non può accadere.
Lo congeda frettolosamente.
Kiddi si sveglia e si butta sul divano.
Gummi lo copre con una coperta.
(Il ghiaccio avvolge il sole, ma quello più impenetrabile ricopre il cuore degli uomini).

E poi c’è quella scena bellissima.
È mattino presto, Gummi esce di casa, tra la neve trova suo fratello privo di sensi, svenuto dopo un’altra notte passata a bere.
Lo raccoglie con la scavatrice e lo porta in ospedale.
Non una sola parola. Amo questo genere di silenzio, così gravido di significati.

Ora Gummi è solo, va a casa di Kiddi per pulirla, dato che suo fratello è l’unico allevatore di tutta la valle a non aver sistemato e ripulito dopo la scoperta della scrapie.
Accarezza il cane, osserva qualche foto.
È la casa in cui è cresciuto. Probabilmente ci mancava da quarant’anni. Dall’inizio di questa guerra muta. Il fuoco dei ricordi dentro il ghiaccio della vita.

Kiddi ritorna in taxi. Spia suo fratello.
Lo vede armeggiare, entrare in cantina.
Allora, senza farsi notare, si intrufola in casa.
E qui abbiamo un altro splendido, meraviglioso sguardo.
Per la prima volta è di Kiddi.
È fermo sulla porta della cantina, noi sappiamo cosa sta guardando.
I suoi occhi. Quello sguardo.
I Bolstadir sono ancora vivi.
Noi siamo ancora vivi.
Che cosa si prova quando qualcosa di totalmente inatteso, impensabile, praticamente impossibile, fa brillare una scintilla di speranza nell’oscurità della disperazione?
Il fuoco dentro il ghiaccio.
Il vento gelido dell’inverno promette all’erba che il sole arriverà presto.

Gummi apre la porta della stalla di Kiddi e con sorpresa se lo ritrova davanti.
«So cosa nascondi in cantina».
Gummi spalanca gli occhi e fugge a casa sua.
Ha paura, teme che suo fratello possa rubargli le pecore, possa compiere qualche pazzia,
Ma non c’è niente di più folle e imprevedibile della vita (soprattutto quando la pianifichi e la progetti): bussano alla sua porta. È di nuovo l’agente della disinfestazione. Chiede di poter usare il bagno. Gummi acconsente. La vita non è d’accordo.
L’ariete giù in cantina rompe il piccolo recinto e il belato delle pecore risuona in tutta la casa.
Gummi (ancora quei suoi occhi che urlano) vede uscire di casa l’agente.
È chiaro che ha sentito, che ha capito tutto. Basta, è davvero finita adesso.
Sta andando a chiamare la squadra, arriveranno e uccideranno gli ultimi esemplari dei Bolstad.
L’estinzione. La neve. La mia vita sepolta.

E poi il quarto d’ora finale.
Una meraviglia.

Gummi è disperato e bussa alla porta di Kiddi.
«Kiddi aiutami, stanno arrivando».
Si guardano negli occhi.
Non lo facevano da una vita, non così.
È un attimo infinito, è l’eternità che si fa istante.
È il raggio di sole che scioglie ogni coltre di ghiaccio.
Il cuore torna a battere e a battersi.
In quell’istante senza fine, in quella fugacità interminabile, in quello sguardo così sincero, disperato, che attraversa il muro di marmo eretto negli anni: è tutto finito.
È tutto finito, dimenticato, perdonato.
Quaranta lunghi, stupidi anni di silenzio.
Siamo fratelli, e siamo soli contro il mondo.
E allora bisogna inventarsi un cielo per questi castelli in rovina, perché hanno ancora voglia di sognare. Bisogna inventarsi una luce per questo buio accecante. Bisogna costruire una luminosa oscurità per questa luce che sa di cecità. Andiamo via verso l’altrove, prendiamo per mano l’amore che ci brucia dentro e andiamo. Fuoco e ghiaccio camminate con noi. Queste mani venate di nebbia, perdonami ti prego. Questi occhi velati di neve, perdonali ti credo. Avrei voluto. Avrei dovuto. E quel giorno. Io non pensavo che. E se invece. Cosa sarebbe stato. Cosa siamo diventati. Quando è cominciato tutto questo. Bisogna riempire di castelli, questo cielo che abbiamo nel cuore.

Non dicono una parola.
Questa scena dura un secondo, pochissimi fotogrammi.
Ma non finisce mai.
Devono salvare le pecore.

Devono salvare la razza di Bolstad.
Devono salvare loro stessi.
Loro stanno arrivando.
Continuano la loro personalissima lotta contro l’entropia dei sentimenti, ma stavolta sono insieme. Noi. Noi due. Noi due soli. Noi due: soli. Stelle che bruciano in questo pianeta spento. La loro è una feroce resistenza all’estinzione, al tempo insaziabile, al nulla che cancella l’identità, a quella tormenta di ricordi, sogni, angosce, speranze e desideri che è la vita.
Fuggono sugli altipiani.
Se portano il gregge lì su, gli animali potrebbero sopravvivere all’inverno e continuare a vivere, i Bolstadir non finiranno.
Sulla stessa motoslitta, guidano le sette pecore e l’ariete su per i sentieri della montagna.
Sempre più in alto. Per ore. La neve cade furibonda.
Una tempesta tremenda. Arriva la notte. Sono immersi nel buio e nella neve.
Gli ultimi minuti sono da brividi.
La motoslitta si ferma. Le pecore ormai hanno trovato la loro strada.
Il vento graffia ogni cosa.
Gummi si perde, Kiddi lo ritrova svenuto.
Scava un tunnel nella neve.
Spoglia il fratello e si toglie i vestiti.
Ha bisogno di tenerlo al caldo.
Lo abbraccia fortissimo.
Si amano come solo due fratelli possono amarsi.
«Andrà tutto bene, mio caro Gummi».

Uno degli abbracci più potenti che abbia mai visto.
Dolcissimo, disperato, sincero, indimenticabile.
Due fratelli che si stringono forte nel grembo ghiacciato della terra.


Fuori, incessante, cade la neve.