Recensione di   Roberto Flauto Roberto Flauto

Quién te cantará

(Film, 2018)

Quién te cantará

I temi della definizione identitaria, dell’imitazione, della costruzione dell’io, e tutte le questioni a cui rimandano, lo confesso, sono tra i miei preferiti. Temi universali, che nella narrazione di Quien te cantarà, attraverso la storia di una coppia di donne, si declinano sul piano individuale, singolare, specifico (nel senso di preciso, determinato). A differenza di quanto avviene, per esempio, in Vivarium, in cui questi stessi temi, sempre attraverso la storia di una coppia, vengono invece sviluppati sul terreno sociale, antropologico, plurale, specifico (ma nel senso di specie). Tutto questo per dire che non c’è (apparentemente) metafora, ma una prosa intimamente poetica: l’uso dei colori, delle inquadrature, dei dialoghi, il gioco di sguardi e di rimandi che stordisce per quanto è bello. Però, a ben guardare, oltre alla presenza dell’origami (che in realtà è forse un correlativo oggettivo), c’è un'unica, grandissima metafora: l’oceano.

L’oceano che rincorre sé stesso, continuamente, con le onde che si frangono a riva, senza sosta. Perché la ripetizione è l’essenza stessa dell’imitazione: meccanismo vitale per ogni specie vivente, dal quale non può prescindere nessuna forma di adattamento (in senso darwiniano) né alcuna dinamica formativa e di apprendimento. Un elemento centrale nella costruzione del sé. Ma qui si racconta la deriva patologica del dispositivo mimetico, perché l’io di Lila si erge intorno alla menzogna e al “parassitismo” identitario. Se è vero, come è vero, che l’autocoscienza e la formazione dell’io derivano dalla capacità di saper cogliere la propria immagine riflessa (ovviamente a prescindere dal senso della vista), direi che Lila si è sempre specchiata in un vetro in frantumi.

Del resto, questo film è proprio un gioco di specchi. Lila che si specchia in Violeta per ritrovare sé stessa, dopo che Violeta si è specchiata tutta la vita in Lila per esprimere sé stessa. E quindi l’appropriazione, l’invasione, il dilagare dentro l’altro. L’imitazione, la ripetizione: dinamiche intrinsecamente poetiche (nel senso letterale), che però in questa storia degenerano, fino a sfociare nella tragedia, nella distruzione, nell’annientamento. E forse è per questo che alla fine lo specchio rimanda un’immagine offuscata, appannata, confusa: Violeta (o è Lila?) non riconosce più quell’immagine riflessa, perché ha perso tutti gli elementi che le permettevano di cogliere la sua unicità in questo oceano caotico e irrefrenabile che è la vita.

L’ambiguità del finale mi ha steso. La posizione delle scarpe sulla spiaggia (quanta cura per i dettagli) impedisce di prendere una posizione chiara, definitiva: è Violeta o Lila? Quale riflesso stiamo guardando? Dove ci stiamo specchiando? E il cerchio, in qualche modo, si chiude: si parte dall’oceano per poi farvi ritorno.

C’è una poesia di Rilke - uno dei manifesti poetici più suggestivi e significativi di sempre - che si interroga intorno al compito del poeta. La risposta che si dà, e che io condivido, è racchiusa in due semplici parole: “io canto”. Questo fa il poeta: celebra l’esistenza, ogni cosa possibile, incluso l’impossibile, per il semplice fatto che esiste e che accade. Ed è appunto l’io, che canta, il soggetto, che a prescindere da ogni cosa, si interfaccia con il mondo dalla sua, inestirpabile, soggettività. Ma quando si scade nel patologico, allora il vetro della vita si frantuma, lo specchio riflette un’immagine sbiadita, irriconoscibile e io canto diventa chi canterà per te?.