Possessor

Sono sempre stato affascinato dalla visione cronenbergiana del corpo, fin da piccolo, da questa con-fusione di carne e bit (che da un certo punto di vista è l'habitat "naturale" dell'uomo), ma in questo caso (a differenza del padre), per come la vedo io, la variabile fondamentale, attorno alla quale ruota il film, è quella dell'identità. Parlando di J'ai perdu mon corps (in italiano Dov'è il mio corpo?) ho accennato all'idea secondo la quale l'essere si sostanzia nel corpo e non tanto nel cogito, e credo che Possessor si inserisca sulla scia di questa riflessione: il controllo dell'altro avviene prendendo possesso del suo corpo (entrare nella macchina vuol dire abbandonare il proprio), a differenza del bambino che telecomanda il robot a distanza, senza sostituirsi fisicamente a esso. Allora la domanda "chi sono?" entra in una dimensione sconosciuta e instabile: sono io o colui di cui occupo il corpo? La dissonanza cognitiva è fortissima, perché "pensarmi" non basta più. non è sufficiente: per esistere (e direi anche - forse soprattutto - per sentirmi esistere) ho bisogno di un'interfaccia unica e solo mia col mondo esterno, ovvero il mio corpo. Perché al massimo posso mettermi nei tuoi panni, non nella tua carne. Qualcosa, quindi, si spezza inevitabilmente. Tasya è la migliore, ma di troppe vite si muore. E si muore non riuscendo a morire, come lei che non riesce a premere il grilletto, e quindi condannandosi a vivere (e a convivere con) vite che non sono la sua, corpi che non sono i suoi. I quali, inevitabilmente, si ribellano - e forse è per questo che lei non spara alle sue vittime, ma ne dilania il corpo con coltelli e altri strumenti, come a distruggere quell'involucro che gli altri possiedono e lei no, perché ne ha due, e dunque nessuno.

Perché posso prendermi i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti, il tuo futuro, tutta la tua vita, ma non posso entrare nella tua pelle, non senza spezzare me stesso, e allora diventa un massacro. Del resto, Ava si accorge subito che Colin è "diverso". Essere è essere percepiti, come dice Berkeley. Voglio dire, se entro nelle tue viscere, abbandonando le mie, sarò percepito come altro da me, e questo poi chi glielo spiega al mio cervello, che continua a implorare, spaventato e in preda alla disperazione più folle, come una mano inseguita dai ratti in piena notte, "dov'è il mio corpo?".

Oltre al discorso identitario, qiello del controllo è un altro tema dominante. Un controllo che nasce dalla volontà di determinare con la violenza (di ogni tipo: fisica, cognitiva, psichica) il "cambiamento" (la misteriosa agenzia, eliminando certe persone, determina quei cambiamenti che faranno la fortuna di qualcuno), a differenza di quanto avviene per esempio in Inception, dove il controllo avviene nella dimensione onirica, dove sì si abbandona il proprio corpo (addormentato) ma non si entra in quello di nessun altro, e il "cambiamento" è determinato con la violenza di un'idea che sboccia. Anche qui, sull'idea di controllo e manipolazione, penso anche al lavoro di Colin, ci sarebbe così tanto da dire, e non è il caso di dilungarmi troppo. Mi limito a dire che controllo, manipolazione, influenza, persuasione non sono concetti complessi, e dicerto non sono intrinsecamente negativi (ammesso che possa esistere qualcosa di intrisecamente "negativo"), appartengono a ognuno di noi, fanno parte di qualunque sistema (biologico, culturale, sociale), le loro manifestazioni deleterie, nefaste, estreme, sono derive patologiche del nostro stare al mondo.

Dunque, abbiamo un corpo o siamo un corpo? Entrambe le cose. Siamo ciò che abbiamo, abbiamo come siamo, in un vortice di definizione identitaria che non conosce ragione. Perché il possesso è possessione, è ossessione, è delirio esistenziale, è ubriachezza cosmetica, estetica ed estatica, è "questo sono io, questo è il mio volto, non posso essere altro che me stesso, ed è l'unico modo che ho per essere chiunque altro". La poesia dell'umano sta tutta qui.