Neve mostri amore blu

 

 

 

La poesia è una malattia del cervello.
(Alfred De Vigny)

 

Un giovanotto che si era abbastanza ben rimesso da un accesso di schizofrenia ricevette in ospedale una visita di sua madre. Contento di vederla, le mise d’impulso il braccio sulle spalle, al che ella s’irrigidì. Egli ritrasse il braccio, e la madre gli domandò: «Non mi vuoi più bene?». Il ragazzo arrossì, e la madre disse ancora: «Caro, non devi provare così facilmente imbarazzo e paura dei tuoi sentimenti». Il paziente non poté stare con la madre che per pochi minuti ancora, e dopo la sua partenza aggredì un inserviente e fu messo nel bagno freddo.
(Bateson, Verso un’ecologia della mente)
 

 

 

 



La Parola è un virus. È un morbo letale, è la nostra unica salvezza. Sapiens è logos. Dio crea il mondo con la parola. Cantami, o Diva. La parola è la più antica delle divinità. L’origine del mondo, di ogni mondo, il mondo stesso. Quello che abitiamo e quello che ci abita. Ammesso che siano distinguibili. L’uomo è l’unico animale che parla, ed è per questo che ama, odia, uccide, canta, scrive, violenta, sogna, corteggia l’infinito e colleziona bulbi oculari. La parola infetta, contagia, ammala, influenza, colpisce, si insinua e radica, scava, svuota, colma, prosciuga, straripa, depone uova nel cervello che poi si schiudono in frasi che possono stravolgere ogni cosa. Incrinare qualsiasi equilibrio. Rivelare ogni finzione. Fingere ogni realtà. Decretare un nuovo inizio, una nuova fine, un altro ancora, un’altra àncora. Il linguaggio è una fabbrica di fantasmi. È poesia, algoritmo, elzenveiverplatz. È quello che siamo. È questo che siamo. Così siamo. Come siamo? Come sì, amo.

Noi quindi siamo vivi. O siamo morti? No, siamo vivi. Non siamo vivi. No, siamo morti. Siamo orti, coltivati a menzogna e malattia. Siamo porti, solcati da galeoni spettrali, da sirene impazzite, da gabbiani che ogni notte ci dilaniano il fegato. E siamo i gabbiani, e siamo il fegato, e siamo Zeus. Siamo morti. No, siamo vivi. Non siamo vivi. Siamo privi, di menzogne e malattie. Siamo primi, prismi (nel senso di Borges). Siamo vivi. O siamo morti? No, siamo sorti, risorti, contorti, ritorti: ricordi? Sì, siamo ricordi. Siamo fantasmi. Siamo distorsioni spaziotemporali: perché l’hic et nunc dell’umano è un “qui” che è anche altrove e ovunque e in nessun luogo, un “ora” che è anche prima, dopo, mai, sempre. Mentre fuori c’è una tempesta di neve piena di mostri. Mentre dentro c’è un oceano di vene piene di inchiostri. Siamo dunque vivi? Siamo quindi morti? Lasciateci in pace, lasciateci in guerra, combattuta a finzione e poesia, che poi sono la stessa cosa, che noi sono la stessa casa. In principio, dunque, era il verso dell’uomo.

Non smettiamo mai di parlare. Neanche da muti, neanche da morti. E abbiamo tanto da dire e non diciamo mai niente, eppure tutto parla di noi, e tutti parlano di noi (che poi “noi”, letto al contrario, è io elevato a n). Il fatto è che ne uccide più la lingua di qualunque altra arma. Ha fatto più morti “ti amo” che un milione di apocalissi cosmiche. Ogni parola è omicidio. Parlare è una forma di cannibalismo. Come si sopravvive? Non si sopravvive. Si muore a ogni sussurro, non può essere altrimenti. E ci ritroviamo barricati in una stazione radio, mentre fuori e dentro e ovunque e sempre la neve infuria senza sosta. E ci ritroviamo senza cercarci, perché siamo tutti qui, nella stessa sillaba: sì, io. La parola ha infettato tutti. Li sento gemere e ripetere all’infinito una cantilena che conosco benissimo: è la stessa che da sempre ho nel cuore, la cui eco si ripete nell’aria gelida della città immersa nella neve, alle cinque del mattino, quando tutto è sussurro. Roberto Flauto è vivo.

Uccidere è un fiore. Il giallo è participio futuro. Nascere è un terremoto: sismi esistenziali sconvolgono intere biografie, perché qualcuno ha detto, parlato, sussurrato, urlato, sibilato, taciuto, ingoiato, vomitato, cantato parole di significati neri, veri, seri: c’eri - e ci sei ancora. Ci sei solo tu, Dea, continua a cantarmi, ti prego. Sì, va tutto bene, ma ho paura perché «bisogna stare attenti alle parole / che possono essere pericolose / che possono chiudere il cervello / portarti via là dove fa freddo». Ma Roberto Flauto è vivo. Una voce lo ripete nel vento carico di neve, un attimo prima dell’avvento dei mulini a vento (perché siamo costantemente sull’urlo del precipizio che stordisce ogni equilibrio). Si muore di metafora, di eccesso di realtà, di carenza di universo, di mancanza di assenza. E tutto ha un nome, o meglio: tutto è un nome. Ogni cosa è narrazione. Siamo storie. Quindi la domanda è una soltanto, quella che fa più paura. Sono io o colui di cui parlo?

Kill is kiss. Kill is kiss. Kill is kiss. Kill you. Kiss you. Miss you. Le parole scavano solchi nella neve e lasciano scie di sangue. Sentieri putrescenti di fonemi, di suoni organizzati secondo un codice di decodifica: parlo di luce improvvisa, di fiumi in piena (notte), di gatti che passeggiano sui tetti (lune), di notti che fioriscono quando meno me lo aspetto con precisione. Le parole che siamo, le storie che ci raccontiamo, che ci raccontano, che sono tutto ciò che è, era, sarà. Kill is kiss. Scardinare certi significati, radicare incerti sensi, strappare radici, giocare a m’ama non m’ama ma m’ama ma sono solo petali nel vento. No, non parlare. Sì, non parlo. Come quella volta che dissi «non dirò mai più niente».

La Parola è un virus. È una salvezza letale, un morbo salvifico. Ogni parola è genesi, resurrezione, poiesis: è abracadabra, nel suo significato più antico: mentre parlo creo. Allora dio è nella mia bocca. O meglio sulle sue labbra. Kiss me: sismi: bacio apocalittico. Per uscire dalla stazione radio nella quale siamo confinati, per entrare nella tormenta di neve nella quale siamo sconfinati. Per andare, per perdersi per dirsi e per darsi. Per diventare e diventarsi. Perché non sono sicuro che ci voglia coraggio per essere se stessi, ma sono certo che ci vuole poesia per essere se stessi facendo qualcos’altro.

Perché kill is kiss. Tutto è qualcos’altro, altro da sé. Gli amici sono predicati verbali, il cielo è un monologo, il colore della notte è una conchiglia del pleistocene. I quaderni di quando ero piccolo corrono sugli altipiani insieme alle piramidi esadecimali, sul soffitto c’è la costellazione dell’anchilosauro che beve ipotenuse. Voglio dire: voglio dire. Tutto è metafora. Ceci n’est pas une pipe. Il tradimento delle immagini, la traduzione dei sentimenti. Senti, menti? Anche io. Tutto ciò che dico è falso. Io ti amo. Io ti odio. Ma non avere paura. Non è la fine del mondo, è solo la fine del giorno. Continuiamo a parlare senza fare prigionieri.

Anche alla fine sarà il Verbo.

 

 

 

 

Sandro Botticelli, “Adorazione dei Magi”