Piercing

I primi fotogrammi. Quei palazzi quasi sovrapposti, con quelle finestre illuminate, quei colori pastello, tutto dentro al colore/calore della notte. Mi sono bastati tre secondi per capire che mi sarebbe piaciuto. E poi quel punteruolo rompighiaccio. L' "arma" che uccise Fritz il gatto. E quel "voglio capire le sue parole di terrore". Insomma, primi minuti folgoranti.

Prima di Possessor, non sapevo chi fosse Cristopher Abbott, e dopo Piercing devo ammettere che trovo davvero penetrante la potenza dei suoi occhi, del suo sguardo. Per la Wasikowska, invece, ho sempre avuto un debole, una bellezza quasi preraffaellita, che mischia candore e imperfezione al punto giusto (splendida in Stoker e The Double, per esempio). Per questo ruolo ci voleva proprio una come lei. E poi il dolore come modo di sublimare le emozioni, come mezzo per assegnare un significato agli eventi e alle relazioni. Come lei che si perfora il capezzolo perché "così avrò un tuo ricordo"; o quell'insetto mostruoso che, nella scena allucinata, sorge dalle fogne e si arrampica sul viso di lui, fino a entrargli dentro (una plausibile metafora di quel "male" che lo ha segnato durante l'infanzia, a causa della madre, ormai radicato in lui).

Splendida la scena di preparazione, in cui lui simula ciò che vorrà fare. E splendida la telefonata alla moglie, che io credo non sia mai avvenuta - oppure sì, ma non in quei termini (perché lui ha bisogno di "giustificare" e dare un senso al pensiero omicida che lo tormenta, e l'appoggio della moglie - colei che agli occhi del mondo gli dà un senso - è per lui fondamentale. Ha bisogno di sentirselo dire da lei che è necessario che lui uccida, stando sempre molto attento, "perché se ti ammali anche la bambina si ammala").

Un film sulla ricerca del dolore, reiterato e voluto, inflitto e autoinflitto, in quanto interfaccia con la vita. Un film da 8 con un finale da 7, se vogliamo parlare di voti. Ma dopo quel folgorante incipit, dopo quella scena di simulazione nella stanza d'albergo, mi aspettavo un capolavoro. Non lo è stato. Ma è stato molto bello. Mi resteranno i colori, gli occhi di Abbott, le scritte gialle dei titoli di coda, quei palazzi e quelle finestre, il senso del dolore come "possibilità", la follia di essere se stessi.