Recensione di   Roberto Flauto Roberto Flauto

About Endlessness

(Film, 2019)

Sulla Infinitezza

Istanti e istantanee di vita, vignette di esistenza, racconti e sussurri da mille e una notte, anzi tutte. Notti di storie intorno al fuoco, di fuochi dentro l’oscurità dei nostri occhi, di ricordi che sono progetti e di futuri inaccessibili, perché sepolti sotto strati di fallimenti spettacolari, di tentativi di balena, di aurore improvvise: notti di storie che siamo noi. Con quella voce di donna – calda, primigenia – che narra quello che ha visto, come la più ispiratrice delle muse, che racchiude in poche parole il senso di quel tutto che, in fondo, è comunque fantastico. E lo è davvero, io la penso così, a prescindere dal sangue versato, dagli incubi più spaventosi, dalla tristezza disperata di non sapere che cosa vuoi, dalla fede che vacilla, dai fiori morti sulla tomba di tuo figlio, dalla voglia di farla finita, dal gelo di cui siamo capaci. Io la penso così. Perché poi basta un cielo stellato, l’affanno della persona che ami, che ha corso per te, solo per te; basta il sorriso di uno sconosciuto che ti trasporta nella sua felicità, una pozzanghera che non ti aspettavi, una cena improvvisata, una mattina di sole e di foglie, un libro, una mano, un mondo, una musica, un desiderio che fino a ieri non c’era e che ora è misura di tutte le cose. Basta questo, e non basta mai, per volare nel cielo più alto, sovrastando le macerie di una vita devastata da quella guerra che ci portiamo nel cuore.

Frammenti di infinitezza che si incastrano nella finitudine umana, che in quanto tale riveste di significato l’infinito. Uno squarcio aperto nella tela del reale, in cui si insinua l’effimero dialogo eterno tra la parzialità che siamo e la totalità a cui aspiriamo. Dove ogni cosa accade, incluso l’impossibile; dove ogni cosa esiste, incluso l’inesistente; dove tutto è a portata di mano, di cuore, di bocca, di occhi, inclusi l’irraggiungibile, l’impalpabile, l’indicibile e l’incredibile. Perché la vita è un insieme di e-venti che soffiano senza sosta, ma con tutti i sostantivi (perché ogni cosa ha il tuo nome, amore); senza senso, ma con tutte le sensazioni (perché fa così freddo qui tra le nuvole quando tu non ci sei); senza tempo, ma con tutti i temporali (e allora andiamo a pattinare sul ghiaccio appena si scioglie). Raffiche su raffiche di poesia, una tormenta di neve che in realtà è una carezza, tanto lieve da deformare il tempo. Sì, è così, lo so. In ogni caso, in ogni cosa, in ogni casa. E allora l’attimo si dilata all’infinitezza e l’infinitezza dura un istante (e l’infinito si concretizza, diviene finito, ovvero terreno fertile, dimora esistenziale, ovvero umano: e quindi mortale, qui la sua meravigliosa bellezza, qui la sua terribile essenza). A prescindere che tu sia un prete che ha perso la fede, una donna a cui piace lo champagne, un uomo che ha commesso uno sbaglio, un ragazzo che non ha ancora trovato l’amore, una ragazza che crede che non ci sia nessuno ad aspettarla, una mamma a cui si è rotto il tacco della scarpa destra, un giovane dagli occhi sognanti che legge un libro ad alta voce, una giovane che danza sul sentiero che porta verso non so dove, un padre che allaccia le scarpe alla figlia sotto un temporale. Perché poi basta un cielo innevato, il silenzio frastornante della persona che ami, che tace anche quando parla; basta il sorriso di uno sconosciuto che ti ricorda la tua infelicità, una pioggia che spoglia i sogni, un bacio insapore, una mattina di niente di niente, un orrore, uno sbaglio, un ricordo, una solitudine, un timore che fino a ieri era qualcos’altro e che ora è sfumatura di tutti i colori. Basta questo, e non basta sai, per volteggiare con leggerezza sui resti di una vita attraversata da quell’oceano che abbiamo dentro.

Sequenze di vite possibili, che sono la mia, che sono la tua, che sono la nostra, che sono la mostra delle assurdità dei giorni. Disperazione, invidia, desiderio, passione, fiducia, dolcezza, orrore. Nei gesti, nelle parole, nei silenzi, negli spazi bianchi tra le vignette, nei margini, dove scorre il sangue, dove avviene la magia. E ci ritroviamo soli e perduti, sulla panchina di una stazione in attesa di qualcuno che ci riconosca, nella folla anonima dell’umanità; quel qualcuno che ci sappia guardare negli occhi e dire “io ti vedo”, foderando di senso l’intreccio dei giorni, che si susseguono, folli e caotici, in una danza di frantumi e speranze. E ci ritroviamo soli: stelle che bruciano dalla voglia di vivere, di viversi e di essere vissuti. Perché è davvero così: è comunque fantastico. Siamo finiti nell’infinitezza, infiniti nella finitudine: questa è la cornice della narrazione umana. La fiamma che alimenta il fuoco intorno al quale ci raccogliamo, per ascoltare la storia della nostra vita. La vita della nostra storia, personale, collettiva cosmica. Fino alla fine, fino all’inizio, fino all’infinito, fino all’infinitezza. Per i cieli stellati che abbiamo dentro, per gli oceani in burrasca che si agitano nei nostri cuori. Sì, io la penso così. Anche se mi sento indifeso e impaurito, e non so che cosa voglio, e mi chiedo come si fa quando la fede si incrina e tutto fa paura. Tutto questo e tutto il resto, tutto: non è comunque fantastico? Ma sono seduto sulla panchina, in alto, sulla collina, al di là della siepe, e come il viandante di Friedrich mi sento smarrito, attraversato, travolto, dai sovrumani silenzi, dalla profondissima quiete, dalla con-fusione, dal rumore, dalla fame, dalla potenza dell’universo: dall’infinità del mondo e della vita. Ed è possibile solo perché sulla panchina non sono solo. Non avere paura, amore mio, la tristezza non è ancora infinita.