J'ai Perdu Mon Corps - [Dov'è il mio corpo?]

Adoro l'idea, che condivido pienamente, di mettere in relazione identità e corpo, in una sorta di ribaltamento della massima cartesiana per cui l'essere non si sostanzia nel cogito ma nel corpo (e quindi la voce non basta, come non bastava neanche a Samantha in Her). La ricerca (ridefinizione) della mano è quindi quella della sua identità. Ed è una ricerca/costruzione che avviene tanto sul piano "organico", materiale (Naoufel) quanto su quello immateriale del racconto, della narrazione, del sogno, dell'immaginazione (le registrazioni, i desideri, le speranze). Perché oltre alla sineddoche (la mano come "parte per il tutto") c'è anche tanta metafora, cioè il luogo principale in cui andiamo a cercare le variabili che ci aiutano a risolvere - o a tentare di risolvere - l'enigma primoediale di sapiens, irriducibile e contraddittorio: "chi sono?". Un dilemma che ha una risposta precisa, netta, ma labile e in costante divenire: "questo sono io" - come disse il nostro antenato che imparò a riconoscere la sua immagine riflessa - risposta che, però, per essere compresa e "comunicata" ha bisogno che il soggetto abbia un corpo, che è e resta la prima e fondamentale interfaccia che abbiamo per definire il reale. E quindi è solo perdendoci (e dunque ritrovandoci) dentro noi stessi, nella complessità del mondo che ci abita, nel nostro corpo (il nostro cogito), che possiamo sfuggire ai ratti che ci inseguono sui binari della vita. E così nascono tutti i fantasmi di cui abbiamo bisogno, grazie ai quali suoneremo il pianoforte tra le stelle.