Recensione di   Roberto Flauto Roberto Flauto

Frank

(Film, 2014)

Frank

Infinite scorrono le onde.
Nella minestra.
Cosa mi portate? Dove mi portate?
Crostino di zenzero.
Un ciuffetto sul tappeto.
Assicurare i perimetri galattici.
I bagni potrebbero essere più puliti.
Tonno in salamoia.
Ciò che adesso è unito presto si separerà.
Stringimi tra le tue braccia.


Jon guarda l’oceano. Canta, ma nella sua testa. Il foglio è bianco. Le parole si rincorrono lungo pentagrammi di note immaginarie. È un musicista imprigionato in un impiegato. Sogna dalla mattina alla sera, e la notte si sveglia e vive nel suo sogno, come il sognatore di Lynch e quello di Borges.

Una persona cerca di annegarsi nell’oceano. Jon è lì, la scena è surreale. L’uomo che sta tentando di suicidarsi in questo modo assurdo è il batterista di una banda dal nome ancora più assurdo: i Soronprfbs. Jon viene avvicinato da Don, che quando scopre che lui è un tastierista, lo invita ad unirsi alla band per un concerto la sera stessa. Sarà un disastro. Un “fallimento spettacolare”, come direbbe Homer Simpson. Entriamo nella minestra, siamo su un crostino di zenzero e navighiamo nel sound di un mondo sconvolgente, splendido, tumultuoso, fantastico. Il mondo di Frank.

Frank è speciale. Come Frank. Parla di arte, della creazione di un’opera (che ambisce a diventare) artistica. Parla del genio, dell’artista, della follia, della sofferenza, dell’ossessione, del diventare e del diventarsi. Così Jon si unisce alla band, è lui il nuovo tastierista. Poi c’è Clara, che ama Frank di un amore misterioso, sotterraneo, viscerale, e “suona l’aria” con il suo theremin (e odia Jon). C’è Don, folle e incredibile, che ha passato anni in una clinica psichiatrica, perché amava scopare manichini (splendida, a tal proposito, la scena in cui lui canta a Jon la canzone d’amore scritta da lui anni prima). Un personaggio splendido. E ci sono Nana e Baraque, al basso e alla chitarra, che mal sopportano la presenza di Jon, a completare i Soronprfbs. Il cui leader, ovviamente, è Frank, che indossa costantemente una maschera, una testa fatta di cartapesta che non toglie mai. Vanno in Irlanda a registrare il loro album. Vi resteranno praticamente un anno. Sarà incredibile.

Il film viene narrato dalla prospettiva di Jon. È sostanzialmente un viaggio di scoperta. Di sé, del mondo, della vita, degli altri. E le domande sono tante, e fanno tutte paura per quanto sono belle. Che cosa vuol dire costruire un legame? Che cosa significa fare arte? Quanto è piacevole, quanto è terrificante? L’idea, estremamente diffusa, che la creazione artistica, che la “vera” arte, in ogni sua accezione (musica, pittura, scrittura, eccetera), derivi dalla sofferenza, dal dolore, perché colui che sta male è capace di raggiungere vette sconosciute agli altri, è sbagliata, infondata, insensata. Jon la pensa così. Si chiede quanto abbia dovuto soffrire Frank per arrivare a concepire una musica tanto bella, per essere capace di cogliere certe sfumature emotive, certe gradazioni dell’esistenza invisibili agli occhi di chi non è come lui. Si domanda quanta sofferenza abbia dovuto affrontare durante la sua infanzia, rinchiuso negli istituti, senza amore, senza carezze, da solo con la fiamma della musica che diventa fuoco inestinguibile nelle sue vene. L’arte, dunque, è figlia del dolore? No. O meglio: forse. Può esserlo, sì, ma in pochissimi casi. «Deve essergli successo qualcosa che l’ha reso così» si ripete. «Quanto deve aver sofferto per creare una musica così sublime». L’arte è figlia di se stessa. Si nutre di se stessa. Nel finale del film saranno i genitori di Frank a spiegare a Jon che quella del loro figlio è stata un’infanzia felice, ha vissuto in una famiglia amorevole, in una casa carica di vita, di sorrisi, di carezze. La sofferenza, come dice sua madre, non l’ha aiutato, semmai l’ha limitato. Però è così: l’idea dell’artista tormentato, sofferente, autodistruttivo, è terribilmente affascinante, à la page. Ma l’arte non è figlia della sofferenza. Forse il contrario. La creazione – in quanto tale, in quanto genesi, nascita, parto – implica sangue, sudore, dolore, sofferenza, ma anche e soprattutto luce, gioia esplosiva, desiderio. «Frank» è questo: una storia d’amore tra l’uomo e l’arte, che si declina lungo le diverse e imprevedibili traiettorie di senso che si dipanano dal cuore pulsante di un crostino di zenzero immerso nella minestra della vita. «Frank» è questo: una dichiarazione d’amore istintiva, passionale, senza mediazioni, è Kiss me Nefertiti, è sismi necessari: perché l’arte è un terremoto dell’anima, un’onda implacabile, incontenibile, assassina, catartica, liberatoria, per questo dobbiamo assicurare i perimetri galattici e restare al sicuro e andare alla deriva, perché fare arte vuole dire indossare una maschera autentica, non il solito finto viso vero. Come Groucho Marx che indossa finti baffi veri sui suoi veri baffi finti. O almeno credo con precisione. «Frank» è anche questo: un manifesto d’amore senza tempo ma con tutti i temporali. Perché c’è una profonda differenza tra “sposare il guardiano del faro” e spostare il gradino del fare: se ne accorge Clara, sul finale del film, quando canta tra le lacrime e Frank, senza maschera, si avvicina al palco.
Non lo riconoscono. Jon, che l’ha accompagnato lì nel locale, per permettere al gruppo di ritrovarsi, li guarda dal bancone del bar. Poi andrà via, perché lui non appartiene a quel mondo, se ne renderà conto in ritardo. Era rimasto accecato dalla luce di Frank, al punto da voler diventare (come) lui a ogni costo. Eppure Don lo aveva avvertito: «prima o poi, Jon, avrai questo pensiero: “perché non posso essere Frank?” oppure “forse posso essere Frank”. Però, Jon, può esserci un solo Frank. Uno solo». Don sa di cosa sta parlando, lo ha vissuto sulla sua pelle. Forse pensava a questo mentre stringeva il cappio intorno al suo collo. Indossa la maschera di Frank e si impicca. Ciao, Don. Sarai polvere, la tua tomba un barattolo di integratori. E ti dimenticheranno nella casa in Irlanda, nel deserto del Texas spargeranno la polvere di un vero integratore. Secondo me la cosa ti ha divertito. Perché «Frank» è un film divertente. Fa sorridere. Come quando Don corre nudo verso il mare per annegarsi, urlando «non voglio essere me, non voglio vivere!» e Clara lo ferma lanciandogli un bastone in testa da lontanissimo. Come quando la famigliola tedesca arriva nella casa in cui stanno registrando l’album perché la avevano prenotata per le vacanze, e Frank parla con la madre. Non sapremo mai cosa le ha detto, ma li vedremo danzare, volteggiare e lei che lo ringrazia dicendo: «grazie per avermi liberata, per avermi illuminato l’anima di una nuova verità». Ecco, «Frank» ci dice che non bisogna soffrire per creare, ma bisogna amare. Lui ha bisogno degli amici, della famiglia, dell’amore, per essere e per essere Frank. E anche noi.

Ossessione e Possessione. L’arte si tesse entro questi due terminali. Almeno secondo Marina Cvetaeva. E io le credo. Anche lei si è impiccata come Don. E indossava la maschera della sua poesia, che poi era il suo vero volto. Ossessione: perché non esiste attimo, pensiero o gesto che non contempla ciò che ami. Possessione: perché sei la creatura della tua creazione e perché “niente rimane senza di te”. In fondo, e «Frank» lo dice chiaramente: per essere artisti basta davvero molto. Il poco è per gli stupidi, il tutto è per gli incapaci, il giusto è per chiunque. L’artista è altro, è altrove, è altroquando. È Frank. Forse anche Jon lo è, un vero musicista, un artista vero, forse lo diventerà, ma non con loro, con i Soronprfbs: lui non appartiene al loro mondo, ma era necessario per lui imbattersi in Frank. È stata la sua catastrofe, nel senso matematico del termine (della notte): ovvero morfogenesi, mutamento di forma, rinascita, ridefinizione identitaria. Per questo lascia il bar mentre il gruppo suona e Frank canta, tra lacrime e sorrisi. E poi partono i titoli di coda. Splendido. I love you all.

Ma cosa c’è in quella testa dentro quella testa? Cos’è l’ispirazione? Come si corteggia l’infinito? Il figliol prodigo vuole tornare…
Sguardi. Libertà. Fuoco. Ancora. Musica. Vi amo tutti. Crostino di zenzero portami via. È molto bello rivedervi.

È una voliera e voi siete uccelli.
Ho un certificato.
La sirena galattica risuona.
Accendiamo la luce e lasciamo che brilli.
Libera la tua creatività.
Oeccscclhjhn.
Infrequenze stridenti di immensità pulsanti.
Stringimi tra le tue braccia.
Lipstick Ringo.
Cincillà.



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