Recensione di   Roberto Flauto Roberto Flauto

Anonymous Animals

(Film, 2021)

Due bambini sono minacciati da un usignolo

 

 

Ti uccido come un cane.

R. Guiducci

 

L'amore disinteressato per tutte le creature viventi è il più bell’attributo dell’uomo.

C. Darwin

 

 

 

 

L’ordine è sovvertito. Il cervo impugna il fucile. L’uomo non ha nome, non ha verbo. La parola è assente, l’identità pertanto è estinta. Non esiste io se non nella possibilità della narrazione. Ciò che non può essere raccontato non esiste. Ma il fucile è carico, non solo di proiettili. Così come l’ascia, la cui lama stride sul pavimento, mentre il cane la trascina. Non ci sono parole, in Les Animaux Anonymes di Baptiste Rouveure, ma soltanto suoni, rumori, grida, lamenti, urla soffocate, cumuli di angoscia e sangue. L’ordine è sovvertito perché sono gli animali a fare l’uomo e l’uomo è animale. Il regista vuole raccontarci quanto siamo cattivi e spietati nei confronti degli animali, attraverso questo ribaltamento di ruoli. Allora c’è la mucca che spara alla nuca la donna che tenta di scappare dal mattatoio. Ci sono i cani che assistono al combattimento tra umani incitando i due a uccidersi. C’è l’orso che va a caccia. E c’è tanto grigio, sembra essere immersi in un autunno fuori dal tempo. Sembra esserci soltanto violenza. Pare l’unico filo della trama esistenziale di queste relazioni. Sarà che manca la parola, che è matrice di identità (e viceversa), perché è così: soltanto nella dimensione umana esiste la bellezza. Solo con sapiens è possibile la poesia, il meraviglioso, l’infinito. Solo questo strano animale che parla è capace di ogni cosa: di orrori indicibili e di splendori sconvolgenti. E le radici della nefandezza più atroce e della meraviglia più sublime risiedono nello stesso luogo: il cuore dell’uomo. Che è parola, che è un “io esisto” affermato senza sosta. Ma gli animali anonimi di Rouveure sono muti, o meglio: sono privi del verbo, che è e resta la genesi del mondo, di ogni mondo. E allora sì, è tutto vero: siamo colpevoli di omicidio. Siamo esseri brutali, e uccidiamo gli animali. Eppure, è altrettanto vero: siamo esseri meravigliosi. Siamo entrambe le cose, perché siamo umani. Se dunque l’intento del film è urlare forte la brutalità di cui l’uomo è capace nei confronti degli animali, ci riesce bene. Ma è una verità parziale. Perché il cervo spara senza esitazione – senza piacere e senza sensi di colpa. Noi, talvolta, esitiamo. Noi, sempre, facciamo i conti con il sangue che versiamo. Siamo gli unici animali che si pongono il problema di evitare la sofferenza agli animali (e, come ogni altro animale, siamo davvero bravi a procrearlo). E popoliamo di animali i nostri cieli: il teriomorfismo ha segnato ogni bacino dell’immaginario magico religioso (dalle grotte di Lascaux alla valle dell’Indo, da Horus a Atena, dall’alba dei tempi ai giorni mostri – spaventosi, perché il tempo passa e il fucile è carico). Sappiamo di essere colpevoli (proprio perché abbiamo il dono-condanna della parola), sappiamo di essere portatori di morte (eppure siamo indefessi dispensatori di vita). Tutto questo, tutto insieme, sempre. E allora va bene, certo, va bene sbattere in faccia all’uomo la sua brutalità (si pensi solo alle performance di Hermann Nitsch), è addirittura necessario. Ma si dica, al contempo, che il gioco è molto più complesso. Che non esistono pasti gratis (anche letteralmente). Non siamo cervi, non siamo cani, non siamo orsi: abbiamo un cuore gravido di mostri e poesia. Siamo eros e thanatos. Siamo portatori di vita, siamo dispensatori di morte. Abbiamo in noi la scintilla creatrice, che fa fiorire ogni cosa. Abbiamo in noi il germe della distruzione, che estingue ogni cosa. E il fatto che queste due dimensioni siano intimamente intrecciate, significandosi mutualmente, è forse la sintesi più corretta della condizione umana – qualunque cosa essa sia. Perché gli animali non sono anonimi, nemmeno per noi che li uccidiamo (non è vero: non siamo i soli a uccidere, è la strategia esistenziale di ogni essere vivente). Tutti hanno un nome. Tutti sono narrazione. Tutto esiste, incluso l’inesistente. Allora che fare? Sì, certo, il male è inestirpabile. E pensare di estinguerlo non solo è impossibile, ma nemmeno auspicabile. Tuttavia può e deve essere contenuto, ridotto al minimo. Questo è possibile, questo è auspicabile. Vale per il nostro modo di produrre cibo di derivazione animale e vale per qualunque aspetto della nostra vita. Il fucile, quindi, resta carico, e non è il cervo che lo impugna, perché l’ordine non è sovvertito. Perché gli animali non sono anonimi, perché tutto ha un nome, perché ogni cosa è viva e parla e canta e pulsa e dice sempre – con amore, poesia e guerra – “io esisto”.