Cellar Door

Diceva Roland Barthes che il trauma è una foto di cronaca senza didascalia.
Io voglio che l’arte, in qualunque delle sue manifestazioni (cinema, letteratura, pittura, musica, fumetto, videogioco, ecc.), mi traumatizzi. Che mi sconvolga, che mi sommerga, che mi porti alla deriva e mi lasci lì in mezzo all’oceano, nelle profondità del bosco, nella più oscura delle selve, cioè il luogo in cui si origina ogni nascita. Quindi non voglio didascalie. Voglio essere partecipe, voglio essere protagonista, voglio essere il creatore. I fratelli D’Innocenzo hanno tanti peccati, più o meno come tutti noi, ma non sono didascalici. La terra dell’abbastanza fu una scoperta sorprendente ed entusiasmante. Favolacce mi ha semplicemente incantato (come solo certe streghe sanno fare), ed è e resta il loro vero capolavoro. Mi avvicino ad America Latina senza saperne nulla, soltanto che si tratta del terzo film di questi due gemelli dai capelli spettinati e dal cuore in fiamme.
 
Esco dal cinema in preda ad un’emozione imprevista, a cui non ho saputo dare subito un nome. Il film mi è piaciuto molto, malgrado quello schiaffo arrivato sul finale: una voce fuori campo di cancerogena didascalia. Dov’è il mio trauma? Ridatemelo. Non era necessario, non funziona, stona con qualsiasi cosa. Eppure, nonostante questo enorme sbaglio, America Latina mi è piaciuto moltissimo, e dopo averci pensato a lungo, è diventato mio. Ho trovato il mio trauma, quella catastrofe in senso matematico che ogni volta mi fa sentire oceano.
 

 


 
C’è un filologo e linguista anglosassone, uno dei più eminenti della storia della glottologia britannica, che una volta disse che tra tutte le possibili combinazioni di parole della lingua inglese, la più bella è senza dubbio Cellar Door. La porta della cantina.
 
Quel linguista si chiamava J. R. R. Tolkien, ed è probabilmente lo scrittore fantasy più famoso di sempre. Io non ho mai letto nessuno dei suoi libri. Ma so che quelle due parole, Cellar Door, sono il verso di un canto primordiale, una poesia che è cominciata tanto tempo fa, quando quella “scimmia nuda” fu travolta dall’irruzione dell’autocoscienza. Perché è oltre la soglia della porta della cantina che la vita si manifesta. In tutta la sua inquietante meraviglia, in tutto il suo orrore, in tutto il suo splendore.
 
Ma ora davanti a quella porta c’è Massimo, un dentista che ha una villa bellissima e una famiglia da sogno.
 
Che cos’è America Latina? E chi è Massimo? Che cosa racconta questo terzo film dei fratelli D’Innocenzo? E perché ho amato anche questa volta, malgrado quella didascalica coltellata, un lavoro così distante dall’ottimo La Terra dell’abbastanza e dal meraviglioso Favolacce? Ci ho pensato tutta la sera, e tutta la notte e tutto il giorno. Poi è successo. Mi è tornata in mente una frase, anzi una parola, che a un certo punto Massimo pronuncia, con gli occhi colmi di lacrime, guardando sua moglie dormire. E allora ho trovato un senso. O meglio: l’ho costruito. E America Latina è diventato mio. Non è più né di Damiano né di Fabio. È mio.
 
Volevo capire da dove venisse fuori America Latina, così diverso dai primi due film, benché abbia un’evidente traccia comune, ovvero la famiglia. Intesa come luogo di incubazione di sogni, come chiave di volta della costruzione identitaria, come cornice primigenia, come gabbia asfissiante e come rifugio di ghiaccio in un mondo in fiamme. Ma qui siamo di fronte a un monologo esistenziale, che è in realtà un dialogo tra uno specchio deformato e un riflesso senza fissa dimora.
 
America Latina è il film più intimo dei D’Innocenzo. Credo che abbiano deciso di raccontare un brandello dello loro oscurità, attraverso una storia che diviene metafora, per certi versi, della condizione del maschio, del padre, contemporaneo. Che si trova in una condizione di equilibrio precario e labile, tra il carico di aspettative, richieste e costruzioni sociali che ne caratterizzano il ruolo culturale e l’insieme di desideri, bisogni e timori che devono fare i conti con una serie di unicità storico-antropologiche che ne minano l’identità.
 
Questo film è quasi una confessione, un tentativo di introspezione, una seduta di psicanalisi – ma in una stanza vuota. Una riflessione sulla crisi epocale del ruolo paterno, così “antropologicamente” diverso da quello della madre, e sulla crisi del maschio, che sta attraversando le soglie di una ridefinizione ontologica di portata devastante. Ancora una volta, cellar door. America Latina è la storia di una ferita che non riesce in alcun modo a diventare cicatrice.
 
Massimo. Dentista altolocato, benestante, la sua villa è di stordente e ottusa bellezza. Vetrate enormi, una trasparenza che nasconde (in realtà ostenta, perché la teme) l’opacità che si porta dentro. Massimo ha tutto, Massimo ha paura, Massimo ha un amico, e con lui beve e parla di ogni cosa, tranne che di sé stesso. Massimo ha una moglie bellissima e due figlie adorabili. Lo vediamo commuoversi dinanzi alla meraviglia della sua famiglia riunita in salotto. Perché la bellezza fa piangere. Come i sogni che si realizzano, come i sogni che si frantumano, come il senso di angoscia sfrenata che si prova di fronte alla porta della cantina.
 
È notte. Massimo è a letto con sua moglie, lei dorme, lui è sopraffatto dal demone dell’assenza. Piange, la guarda negli occhi e dice tremando “aiutami”. È questa la parola che mi è rimasta dentro più di tutte. Perché io l’avevo già sentita, pronunciata dai D’Innocenzo. Con lo stesso carico di disperata solitudine, con lo stesso desiderio di essere raccolti e custoditi, un rifugio di fuoco in un mondo di ghiaccio, una richiesta di aiuto gridata dal sussurro più autentico di cui si può essere capaci. Ci ho pensato a lungo. E non si trova né ne La terra dell’abbastanza né in Favolacce, ma in Mia madre è un’arma, la prima – e finora unica – raccolta di poesie dei due fratelli. Secondo me America Latina ha più in comune con quest’opera letteraria che con i due precedenti film.
“Aiutami”.
È l’ultima parola dell’ultimo verso della prima poesia della silloge. Una composizione intitolata Mamma e che è insieme confessione e ricordo, elogio e sottrazione, ovvero un’ammissione di colpa, di quelle che puoi rivolgere solo a tua madre. Perché le stai dicendo che la ami. “Aiutami”. Lo dicono Damiano e Fabio alla loro mamma e lo dice Massimo, di notte, nel silenzio frastornate del buio, tra le lacrime di un bambino di quarant’anni, a sua moglie che dorme come un angelo. Ed è davvero un angelo, Massimo lo dice chiaramente: “tu sei il mio miracolo”. Ed è questa l’altra frase rivelatrice del senso del film. Almeno secondo me. Tu sei il mio miracolo. Aiutami. Non lasciarmi da solo, non ora, non qui, non sulla soglia della porta della cantina. Ho paura.
 
America Latina.
America, ovvero la bellezza e l’ostentazione del sogno, del lusso, dell’irrefrenabile brulichio delle luci, del desiderio, del cuore che corre lungo sentieri che conducono ovunque.
Latina, ovvero la polvere e le possibilità della provincia, del sentirsi fiammifero nel vento, del dolore apparentemente inevitabile, del cuore che straripa lungo sentieri che fatalmente conducono ovunque.
America Latina, ovvero cuore di tenebra.
 
La porta della cantina. Massimo la apre una mattina come un’altra, e la paura lo assale con violenza inaudita. Trova una ragazzina imbavagliata e legata. Chi è? Cosa ci fa lì? Qualcuno vuole incastrarlo, è chiaro. Sospetterà di tutti. Del suo amico, che finirà per perdere. Di suo padre, che aveva già perso. Di sé stesso, della sua famiglia. Noi siamo con lui, tutto il tempo. Soprattutto: noi siamo lui. Almeno io. Perché nell’oscurità della mia cantina, nell’angolo più profondo del mio cuore, tengo prigioniera la bellezza di cui ho paura. Ho dato la colpa a tutti. Ma anche nella mia vita c’è un miracolo. Ho sussurrato gridando “aiutami”. E ho varcato la soglia della porta della cantina, ho fatto i conti con me stesso. Come immagino accada a chiunque decida di confessarsi, a chiunque decida di stendersi sul divano e raccontarsi. A chiunque confessi la follia della vita alla propria madre. Al proprio angelo, al proprio miracolo. Cellar door. Per questo credo che America Latina sia un’opera importante, bella. Perché è mia. E magari non c’è niente di tutto quello che ho detto, l’ho inventato e ha senso solo per me. Non importa.
 
Questo film – dalla fotografia graffiante e penetrante – in fin dei conti, racconta l’abisso di un uomo che sta precipitando dall’altezza delle stelle. È la descrizione analitica (quasi in senso freudiano) di una caduta, e noi ci affacciamo su una storia in corso da una vita. La stessa che il padre di Massimo ha fatto a pezzi. Perché ha distrutto totalmente suo figlio, gli ha tolto tutto, perché gli ha tolto l’unica cosa che una persona non può permettersi di perdere: la sua identità. Di figlio, prima, di uomo, poi. E allora lui ha dovuto reinventare, in una deriva patologica e letale, i contorni della sua biografia esistenziale, precipitata in un maelstrom affamato e cancerogeno. La sua famiglia non esiste. Tre donne eteree, fantasmatiche, impalpabili, quasi identiche l’una all’altra, parto di una mente affetta da buchi neri e voragini di affetto, che si è specchiata per tutta la vita in uno specchio in frantumi.
 
Ci sono scene di enorme impatto visivo e di grande potenza emotiva. Penso alla scena del pieno, in cui la figlia suona per il padre la sinfonia composta per il suo compleanno. Quel rosso ossessivo che avvolge il tutto. Quel “suona più forte”. Perché quello che Massimo sente battere con ferocia è il cuore rivelatore della realtà che si insinua nelle pieghe della sua mente allagata dalla più malate delle immaginazioni. Infatti, direi che la bambina in cantina, che chissà da quanto tempo si trova lì prigioniera, è il simbolo materiale del suo mostruoso sogno di vita immaginata. E la cantina è il correlativo oggettivo del suo cuore sporco – di vita non vissuta, di affetti lacerati, di sentieri collassati. E allora Massimo, che sente sempre più forte la pressione del reale sul suo castello di carte, deve agire: deve trovare il colpevole. Varca la soglia della porta della cantina. Forse per la prima (o la millesima) volta con consapevolezza. E trova lei. La realtà urla forte, lui fa di tutto per zittirla. Ancora e ancora, come avrà fatto un’infinità di volte. Deve ripulire il suo cuore, deve sommergere la sporcizia che lo inquina (l’allagamento della cantina), deve tenere a sé la malata immaginazione che lo tiene in vita (il fidanzato della figlia che cos’è, se non un’intrusione del “reale” nell’immaginazione? Una lotta tra es, io e super-io – se volete – impegnate in una danza isterica e in punta di piedi, perché danzano su un campo minato).
 
E quindi ecco che il perturbante agisce in tutta la sua insostenibile potenza. L’angoscia è sempre più forte, il timore di essere vero e di essere una bugia sono sempre più incontenibili. La realtà è ormai una mano troppo grande sul cielo della mente di Massimo. Il miracolo non può più aiutarti. L’angelo ha perso le ali. La realtà vince sempre. Non esiste cantina con una porta tanto solida da resistere ai colpi della vita. Non esiste cuore che possa fare a meno di battere. Per quante eclissi lanciamo in alto, non potremo mai oscurare il sole. Siamo destinati a brillare. Siamo condannati a essere stelle, Massimo, mi dispiace che tu non l’abbia capito da bambino. Ma forse non lo sei mai stato, un bambino. Non con quel padre. Tieniti stretto il tuo angelo, la tua disperata illusione e continua a morire come hai sempre fatto.
 

 

 

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“Aiutami”.
Lo sussurro al mio angelo, al mio miracolo.
Perché ora ci sono io davanti alla porta della cantina.