Recensione di   Riccardo Simoncini Riccardo Simoncini

Robot Dreams

(Film, 2023)

Un cane solo, senza amici, senza famiglia. Il sentimento disperato di avere qualcuno con cui condividere hot dog e videogiochi. Un robot che improvvisamente diventa l’amico più grande, il più umano in un mondo metropolitano di animali antropomorfi, tra polipi percussionisti, tori corrieri e maestre coccodrillo, dove i cani si chiamano Dog e i robot Robot appunto.
Con una dolcezza disarmante Pablo Berger realizza un’opera animata senza dialoghi fatta di linee spesse e pieni colorati, quello stile pulito e netto definito "linea chiara" e reso popolare da Hergé con le sue amatissime Avventure di Tintin. La linea dritta di una bocca disegnata che solo flettendosi può dare forma all’infinita variabilità delle espressioni emotive (e persino insegnare ad un uccellino a volare in una delle scene più toccanti del film).
Dopo un’accattivante pubblicità in televisione (“Cerchi un amico?”) Dog acquista un robot come animale metallico da compagnia, prodotto dalla Berger Corporation (riferimento ovviamente non casuale), snodato, flessibile, plastilineo, allungabile nello spazio e nelle emozioni, un Bender di Futurama al suo estremo opposto caratteriale. Quello che avveniva similmente nella finzione in live action del recente e umanissimo Brian e Charles, la storia di un’amicizia profonda quanto disperata, oltre che dispersa, tra un uomo depresso e un robot vivo, in quel caso assemblato con cianfrusaglie di casa, una lavatrice come torace e una testa di manichino come volto. Charles aveva una passione avida per il cavolo, Robot una curiosità infinita per il mondo, che riempie costantemente con il suo grande sorriso. Gelati in compagnia, pattinate nel verdissimo parco di Manhattan, il lento passeggiare romantico mano nella mano: sullo sfondo degli anni Ottanta il volto prima inespressivo di Dog si riaccende ora di felicità, in una danza sincronizzata di vitale musica (per noi) nostalgica.


Ma l’idillio tra Dog e Robot, la favola perfetta nell’immaginario antropomorfo del sogno americano dalle tinte canine, si confronta improvvisamente con la realtà più dura: il lento arrugginirsi del metallo splendente dopo che Robot si è buttato in un tuffo vorticoso e acrobatico nel mare dell’oceano, rimanendo così immobile con le giunture rigide e pesanti, sdraiato sulla spiaggia da quel giorno inaccessibile per la fine della stagione balneare. Inutili i criminali tentativi di Dog di violarla e liberarla, di oltrepassare i cancelli e il filo spinato che segnano l’inizio dell’inverno più rigido. 

Il tempo passa, a ritmo di malinconica musica jazz, e l’amicizia che sembrava indistruttibile inizia a vivere del suo sognare più che del suo essere, per la distanza, per l’inevitabile separazione.  Robot impietrito sogna (ad occhi aperti) l’impossibile evadere dall’immobilità della sua ruggine, rompere con il possibile l’improbabile, in un vero e proprio compendio fantasmagorico di sogni, facendo insomma ciò che la realtà non gli consente più: danze con margherite, balzi olimpionici, assurdi incontri salvifici. Ogni sogno si conclude sempre con Robot che suona il citofono di Dog per ritrovarlo, ma poi si sveglia. “È solo un sogno” o meglio “purtroppo è solo un sogno”. Quei sogni di metallo caldo che riescono però a sopravvivere (e a far sopravvivere) anche al gelo più estremo. Ma anche le fiabe finiscono e la stagione degli incubi disillusi fa capolino sotto al cuscino. Con l’idea di diventare ancora più soli per non esserlo stati fino all’attimo prima, con lo stesso esito destabilizzante e nichilista del vuoto di Bojack Horseman, stessi animali antropomorfi che in una metropoli cinematografica perdono il senso dell’essere tali. Una metropoli, come tutte le metropoli, dove l’eccesso, la sovrappopolazione, la sovra-socializzazione arena corpi nel vuoto, senza permettere mai di conoscere davvero qualcuno. Una giungla di visioni e suoni, un arcobaleno di energia pop, dove si riesce però ancora e comunque a sentirsi soli e persi, persino quando si è insieme agli altri. Dove gli incontri svaniscono come le stagioni, gli amici si sciolgono o volano via, l’amarezza di un plurale divenuto singolare.


Lasciare andare, lasciarsi andare, perché la ruggine non attacchi anche il nostro cuore.

 

 

Da Il Buio In Sala - Re­so­con­to del 41 To­ri­no Film Fe­sti­val (2023)