La gente racconta quello che sa, solamente che se racconta 10 parole, dopo viene tramandato a 15 parole, poi 50 parole, alla fine c’è un po’ inventato e un po’ vero. Poi vai a vedere cosa è inventato e cos’è vero.
Così si sente dire nel film da un gruppo di cacciatori dei giorni nostri, gli stessi che danno inizio alla vicenda richiamando alla memoria un’antica leggenda popolare. E di leggende parla infatti questo folgorante esordio nella finzione del duo italiano Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis (già conosciuti per diversi documentari che sempre di leggende e racconti parlavano). Di storie che si intersecano per poi lasciarsi. Di tempi lontanissimi che si riconciliano solo nel momento del racconto orale, di quel sacro evento della narrazione in cui una persona mette in scena verbalmente una storia decorandola con la sua esperienza personale. Con quelle parole che, come dicono i cacciatori, da 10 diventano 15 e poi 50. Distorcendosi e ampliandosi. Storie ora raccontate a voce, ora musicate sotto forma di canti popolari, ora messe su carta scritte su minuscoli diari di viaggio, ora persino storie implicite nascoste nel cuore di oggetti trovati sott’acqua.
Re Granchio si sviluppa così, con una stratigrafia di racconti e leggende che si mischiano come frammenti di terra geologicamente diversi.
E anche infatti la storia del protagonista Luciano (l’ubriacone) parte proprio da lì, da una leggenda, da quel miscuglio di vero e inventato a cui si è già fatto riferimento. In un piccolo paesino della Tuscia quell’uomo si destreggia tra l’astratto mondo di corte dei principi e il povero mondo contadino. Innamorato com’è di una ragazza, che a sua volta sembra smarcarsi da quel binomio sociale di alto-basso. Luciano infatti (interpretato magistralmente da un magnetico Gabriele Silli, artista plastico) sembra provenire da un pianeta alieno, attraente eppure ripugnante, quasi come la presenza perturbante di Scarlett Johansson in ‘Under the Skin’. Con una barba folta che prima non c’era, segno di un vissuto, di un tempo lacerante in cui forse tutto è cambiato, che trasforma leggende, persone, storie. Quell’uomo che per costruire distrugge, per perseguire un’etica la infrange, che vive di opposti contraddittori in un mondo a sua volta contraddittorio.
Ma dietro quella prestanza fisica si nasconde una profonda fragilità nell’anima, un vuoto esistenziale opprimente che non lascia alcuno scampo. “Mi sento vuoto” dice. Allo stesso modo chiusa è anche tutta la prima parte del film, con interni claustrofobici illuminati solo da flebili luci di candela ed una pasta organica a pellicola che evidenzia ancora di più la materialità fisica di quelle storie, di un patrimonio culturale mai astratto.
Ma quel vuoto nell’anima sarà presto riempito da una colpa gigantesca e così il vuoto rimarrà solo fuori, all’esterno, impossibile da colmare, nemmeno con il tesoro più grande, nemmeno là, lontanissimo ("in culo al mondo" per citare il capitolo omonimo) nell’immensità della Terra del Fuoco. Una leggenda, insomma, che ha saputo spingersi oltre persino ai confini spaziali, portando la vicenda da un piccolo paesino della Tuscia alla desolazione infinita dell’Argentina, in un cammino salvifico alla ricerca della luce che ricorda tante avventure dal sapore salgariano.
Come se il mondo rurale di Alice Rohrwacher si infiammasse improvvisamente delle tinte violente e carnali del western.

In questo quadro emerge però tutta la contraddizione della ricerca di verità, il disperato bisogno umano di annunciare a gran voce “è reale, è vero”. Ma cosa sarà vero e cosa falso? Esisterà davvero quel tesoro nella Terra del Fuoco? Sarà esistito davvero quel Luciano? E la sua amata Emma?
“La realtà è scadente”, dice Fabietto in ‘È stata la mano di Dio’. E il cinema diventa così l’opportunità per evadere, creare nuovi mondi che permettano di sognare ancora. Ma Re Granchio sembra dirci che forse non è la realtà ad essere scadente, ma il racconto che se ne fa. Perché anche la realtà può abbracciare l’immaginario, anche la realtà può invadere i confini dell’irrealtà. Persino nelle immagini di un film, che ci danno l’illusione di vedere il vero, l’oggettivo (perché c’è qualcuno che ce lo mostra come tale), ma in senso meta-cinematografico Re Granchio parla anche di questo: dell’illusione di immagini leggendarie, concrete, organiche, ma sempre ipoteticamente ingannevoli e distorte. Come ci dice Theo Anthony nel suo meraviglioso documentario ‘All Light, Everywhere’ (visto al TFF39 così come Re Granchio) guardiamo ciò che già ci aspettiamo di vedere, ma è una realtà parziale, vera solo a metà. E tutto quello attorno? Quello che è stato inserito o invece omesso?
L’errore nelle storie (soprattutto se parte di leggende) è parte integrante della loro natura e genesi. Come dice Gianni Rodari (che all’arte di raccontare storie ha dedicato tutta la vita) nel suo ‘Grammatica della fantasia’, al vecchio proverbio “sbagliando s’impara” bisognerebbe sostituire il più corretto “sbagliando s'inventa”. Perché le storie permettono di raccontarci ed estrinsecarci anche al di fuori del nostro corpo. Per citare sempre Rodari: “Se un bambino scrive nel suo quaderno «l'ago di Garda», ho la scelta tra correggere l'errore o seguirne l'ardito suggerimento e scrivere la storia e la geografia di questo «ago» importantissimo. La Luna si specchierà sulla punta o nella cruna? Si pungerà il naso?”.
È dunque in quelle storie che sta la nostra di storia, la più libera possibile, quella che dobbiamo ancora scrivere e costruire. Ma nel frattempo continueremo a raccontare questa leggenda. Di una piccola perla trovata nelle profonde acque dell’oceano dei festival. E di una coppia di registi italiani grandi marinai di quel monumentale veliero che si chiama Cinema.
Ma a volte anche le leggende si rivelano vere, anche più vere della realtà.

Non è il valore che trovi, ma l’immagine che vedi”.