Prima che il mondo diventasse il mondo, era un uovo.
Dentro all’uovo era buio.
Il ratto sgranocchiò l’uovo e fece entrare la luce.
E il mondo ebbe inizio.


Un film di stranissima catalogazione (che solo semplificando potremmo definire documentario) che si apre con una versione nuova e singolare del mito della creazione, attraverso il punto di vista privilegiato di un ratto. L’animale più denigrato, segregato e da sempre utilizzato metaforicamente come simbolo di malattia e sporco diviene qui addirittura il centro del mondo, da cui tutto ha avuto origine. Un pretesto, narrativo innanzitutto, ma anche storico ed antropologico per raccontare di noi: gli esseri umani, animali ancora più complessi che da sempre hanno dovuto conviverci (con i ratti e con noi stessi), soprattutto in una città altrettanto singolare come Baltimora, lontanissima (apparentemente) da quella classica savana bestiale dei leoni tanto raccontati invece dalla National Geographic.

Riprendendo piuttosto le migliori tradizioni documentaristiche da Herzog a Chris Marker, Theo Anthony (qui al suo esordio nel lungometraggio) costruisce un’opera dalla grande eterogeneità, che partendo da un carattere apparentemente informativo approda ad una dimensione estremamente visionaria e poetica.
Sembra un puzzle, con pezzi frammentari che difficilmente all’inizio riusciamo a riordinare: vediamo sezioni intere di storia, di eugenetica, di pianificazione urbana. Dalle leggi storiche di Baltimora con cui era sancita l’organizzazione dei quartieri, agli incessanti e diversificati esperimenti comportamentali sui topi. Dalle interviste a persone comuni e il loro rapporto di convivenza con i ratti, a vere e proprie visite museali in strutture di addestramento per investigatori e criminologi. Fino ad arrivare addirittura a interi segmenti che riconducono alla video-arte. Ma, come accadeva in ‘71 frammenti di una cronologia del caso’ di Michael Haneke, lentamente quei molteplici pezzi si riuniranno in un progressivo crescendo di tensione. In quella concatenazione infinita iniziamo a vedere qualcosa di più grande. Elementi comuni, ma soprattutto costanti. Nel tempo e nello spazio. Tra gli uomini e gli animali. Tra il topo e l’uomo.

Come in ‘Dark Night’ di Tim Sutton (dove i frammenti di vite vuote di tanti giovani americani mettevano in luce aspetti inquietanti della società), anche qui attraverso i singoli ritratti si sintetizzano in un modo di pensare collettivo, americano certo, ma anche profondamente occidentale. Non sappiamo chi siano i buoni e chi i cattivi, o almeno non in maniera assoluta. Assistiamo semplicemente ai diversi modi dell’uomo di reagire a ciò che lo circonda, ma la sensazione è che qualcosa di angosciante permei quella realtà.
Se nella savana si può scappare (o almeno provarci), a Baltimora sembra non ci sia scampo. Non c’è per i topi, non c’è per gli uomini. Siamo tutti nello stesso ambiente (anche se non ci incontriamo). Abbiamo tutti una gabbia (più o meno grande) in cui siamo confinati: che sia intesa come fisica (un luogo stretto in cui vivere) o esistenziale (collettiva, morale, culturale). Ed è un gabbia che, pur mutando forma e colore negli anni, c’è sempre stata. Costantemente. È un luogo chiuso che ci opprime, che ci obbliga a vivere ammassati, vicini, senza possibilità di fuggire o di sottrarci alla nostra natura. Ci muoviamo lungo le vie di Baltimora, nei quartieri, nelle case. Con l’illusione di libertà.
Passiamo continuamente tra presente e passato, tra fotografie di repertorio ed esplorazioni interattive della città attraverso Google Maps. E in questa incessante variabilità di mezzi e contenuti, dal primitivo al tecnologico, non troviamo mondi diversi. Non ci sentiamo mai fuori luogo. Perché la mappa della città è sempre la stessa. Perfettamente sovrapponibile. E così con essa gli animali che la abitano.
Se in Parasite l’ambiente diventava essenziale per assegnare ruoli (sociali e morali) da abbracciare per sentirsi al sicuro, tra cui potersi spostare in un gioco di maschere costante, in Rat Film i piani spaziali sembrano statici. Come se i movimenti (seppur presenti) fossero illusori. E l’ambiente, seppur analogamente oppressivo, fosse uno ed uno soltanto. Inalterato ed immutabile.

Siamo tutti parassiti. Ma non degli altri. Dell’ambiente in cui viviamo.
Dove in fondo ogni cosa si riduce sempre alla legge di preda e predatore.
Di chi mangia e di chi viene mangiato. Di chi vive e di chi muore.
La savana è ritornata nel quartiere.
Ma non è rincuorante come un documentario della National Geographic.