Ormai sembra quasi obbligatorio nella carriera di ogni cineasta il passaggio al film più intimo, autobiografico, strettamente personale: da Spielberg a Sorrentino, da Almodovar a Lars von Trier. Raccontarsi e raccontare il proprio cinema attraverso se stessi, attraverso il proprio rapporto con la settima arte. Eppure in questo appello a cui non manca proprio nessuno c’è chi riesce ancora a farlo con una forza e una vitalità davvero dirompenti. Così Kleber Mendonça Filho, il grande sguardo brasiliano dietro la magia di Neighbouring Sounds, Acquarius e Bacurau, realizza il suo testamento spirituale, una topografia sentimentale, dedicandola appunto ad una città innanzitutto, Recife, e a quei suoi luoghi di fantasmi chiamati sale cinematografiche. In un ideale parallelismo tra il cinema e la sua vita, tra la sua casa di famiglia e il suo quartiere, il regista si mette a nudo dall’interno, svelando i retroscena di un cinema, il suo innanzitutto (“Era la nostra casa, era lì”), cresciuto trasformandosi insieme alla città. 
Prosegue così anche nel documentario la sua unica ricerca sugli spazi come fonte inesauribile di umano mutamento, anche in questo caso i fantasmi del titolo si aggirano infatti tra le rovine di cinema chiusi con “una chiave di lacrime” come epigrafa il gestore di una di queste al momento dell’addio. Anime erranti che cercano nuovi spettatori, o forse solo nuovi luoghi rituali, più che sacri, in cui esistere ancora. Sono i fantasmi di A Ghost Story, che non fanno paura, solo infestano per amore disperato, per un corpo cancellato, per un edificio evaporato, come le sedie del cinema Trianon che non esistono più, come i proiettori spenti, non più rimpiazzabili nemmeno dalle mani giunte con cui il piccolo Sammy Fabelman/Spielberg mostrava alla famiglia le sue stupite creazioni in pellicola. Così le insegne luminose, subliminali indicatori del tempo, si rendono anche silenziosi testimoni dell’irreversibile trasformazione. Intanto gli organi in cellulosa pulsante del cinema spirano fatalmente smaterializzandosi sotto gli occhi di chi lì ci è andato sempre, monumenti infiniti del nostro eterno sognare, lì dove ora vengono venduti frullatori all’ultimo grido. 
Persino il sottoscritto, ad appena 25 anni, ha assistito a quell’infausto momento della chiusura di una piccola sala cittadina di grande affezione, nel tempo della digitalizzazione e della gentrificazione. Perché se la natura occupa gli spazi, l’uomo li invade.
Ma a Recife sembra tutto diverso, ideale equatore di tante storie di demolizioni, tra sbarre, cancelli e filo spinato. Di un centro riempito di sale cinematografiche, ma senza soldi e senza aria condizionata, con l’odore di marea, di frutta e di piscio. A Recife le repliche de Il padrino si sedimentano con una gravità quasi esotica, che ricorda un po’ quell’eroismo irriverente di Talking About Trees  (altro documentario capolavoro) in cui 4 amici registi cercavano disperatamente di portare nel Sudan islamico sale e cinema a bambini che mai l’avevano visto (e quindi nemmeno sognato). Ma qui non c’è nostalgia né resistenza. Il tempo passa e sotto la verticalizzazione distopica degli spazi ridistribuiti i luoghi si trasformano, così allo stesso modo accade all’opportunità di abitarli ancora con occhi curiosi. Una Storia (di pellicole sequestrate e carnevaleschi complotti nazisti) fatta non solo dalle storie di chi ci ha vissuto, ma soprattutto dagli oggetti e dalle immagini impresse indelebilmente nella memoria collettiva, archivio indistruttibile del nostro futuro (la madre stessa del regista - a cui il film sembra parimenti dedicato - ci viene detto essere una storica esperta di tradizione orale).

 

C’era una chiesa, diventata cinema, ritornata chiesa o centro commerciale. Templi diversi per tempi diversi. 

Ma la passione quella non potranno mai demolirla per sostituirla con altro. 

I nostri fantasmi sono più vivi che mai, invisibili, rimangono fermi, lì dove sono sempre stati. 
Può sembrare che stia parlando di metodologia, ma in realtà sto parlando di amore”.

 

Da Il Buio In Sala - Re­so­con­to del 41 To­ri­no Film Fe­sti­val (2023)