Architettura di un'empatia

Un’immersione a pieni polmoni in un ospedale pubblico ginecologico di Parigi, in cui ogni paziente, o meglio ogni donna,  o meglio ogni corpo di donna da titolo arriva in clinica con la sua storia, in quell’enorme “valzer folle dei destini”, sospeso tra nuove diagnosi, nuove vite e altre che arrivano alla loro fine. Ma è anche un enorme valzer di esseri umani, di tutte le origini e i ceti sociali, di volti che si vuole ancora vedere sotto le anonime mascherine, di mani dolcissime di dottoresse che accarezzano quelle fragili delle loro pazienti. Perché come già diceva Ippocrate, padre greco antico della medicina come la conosciamo oggi, “è più importante sapere che tipo di persona abbia una malattia che sapere che tipo di malattia abbia una persona”. Un ciclo che dalla giovinezza arriva all’anzianità, dall’inizio alla fine, tutte le tappe di un’esistenza, tra nascite, aborti, tumori, fecondazioni assistite e transizioni di genere. Il tempo scorre come nel miglior Wiseman, non lento, ma immersivo, osservazionale. La vita si compie tra i luoghi della società, della comunità, in senso lato dell’uomo, fatta dagli uomini (o meglio in questo caso dalle donne), e per questo tremendamente meravigliosa persino nei suoi aspetti più tragici. Ma dove Wiseman è interessato alle istituzioni, Claire Simon indaga l'architettura delle emozioni e del sentire empatico, tra le pareti spoglie tra cui però ci si sente ancora al caldo. La fredda anamnesi diventa infatti dialogo e conversazione, più spesso intima confidenza, dove “la priorità qui è lei”, la paziente, la donna.


Perché se la chirurgia robotica è sempre più precisa nell’asportare lesioni invisibili e la PET sempre più sensibile nell’individuare masse estranee, il caro e buon vecchio ascolto funziona sempre, impossibile da rimpiazzare, tantomeno da emulare. In quel corpo, seppur malato, continua a risiedere sempre un desiderio - di vivere innanzitutto, di avere figli, o di non averli, di riappropriarsi della propria quotidianità  - e la medicina deve assecondarlo. Così il desiderio delle donne di riavere il proprio corpo femminile (e di sentirlo tale) supera la malattia che lo vorrebbe negato, mutato, trasformato, e supera le percentuali e le statistiche che vorrebbero imprigionarlo a semplici fasce d’età (perché spesso per una gravidanza intrapresa dopo i 40 anni c’è solo un amore trovato tardi). E così allo stesso modo l’empatia delicata come una carezza supera le barriere linguistiche e sociali, diviene in sé lingua universale degli uomini.
Partendo da un incipit in prima persona in cui la stessa regista ne racconta la genesi, Claire Simon compie con questo meraviglioso documentario di 3 ore una scelta più umana che registica, avvicinarsi a quelle donne con il suo vissuto prima che con la macchina di presa, senza retorica e senza pietistici manierismi che ne forzino l’emozione.
Un approccio alla medicina come scienza umana già trovato nei meravigliosi (e sempre parigini) documentari On Call di Alice Diop e De Humani Corporis Fabrica di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor. Dove Diop raccontava dei traumi da gestire più che delle malattie da curare, De Humani Corporis Fabrica si concentrava su quell’invisibile mondo interno, la fabbrica del corpo umano e delle sue immaginifiche immagini risultanti, paesaggi quasi fantascientifici, in cui corpo e umano diventavano entità unite indissolubili. Perché il corpo non è solo carne, e la sua alterazione non è solo malattia, non è solo un processo patologico che lo cambia, ma anche un ostacolo alla propria mente, ai propri rapporti, al proprio lavoro, alla propria femminilità in toto. 


Il nostro corpo. Perché nostra è innanzitutto la storia che ci portiamo dentro. Nostre sono le paure, di tutte le donne che temono un giorno di essere lì, che tocchi loro, che tocchi noi, osservatrici divenute pazienti svuotate nel corpo della propria femminilità. Nostro perché richiede il nostro consenso e la nostra approvazione, per qualsiasi visita o trattamento. Nostro, cioè, non come aggettivo possessivo universale, perché non ci appartiene il corpo degli altri. E mai come in questo momento storico dovremmo capire appunto che quel nostro si riferisce a chi il corpo lo fa pulsare e respirare, chi ne subisce i dolori e i traumi, il peso di uno sguardo maschile che lo vorrebbe sottrarre alla sua leggerezza, non a chi crede di poterlo fermare come si arresta una macchina a fine lavoro. Perché la responsabilità quella invece si è nostra, di tutti. 

Questa è la vita reale”.

 

Da Il Buio In Sala - Re­so­con­to del 41 To­ri­no Film Fe­sti­val (2023)