Recensione di   Riccardo Simoncini Riccardo Simoncini

Grace

(Film, 2023)

Un road movie atipico a bordo di un furgoncino scassato su cui padre e figlia (dai nomi imprecisati) tengono tutta la loro vita, vagano nel niente, si spostano senza mai raggiungere nessuna meta, lì nelle regioni più remote della Russia meridionale dove tutto è identico a se stesso, brutale desolazione sull’orlo forse di un’apocalisse senza estate in cui i pesci muoiono uno dopo l’altro. Nelle tappe del loro inutile vagabondare  allestiscono un cinema ambulante e itinerante, uno schermo all’aperto a cui i (pochi) locali disperati accorrono, di fronte all’indifferenza spietata della povertà più estrema, per sfuggire ad una noia dilagante persino negli stessi bambini, che sognano invano di andare a giocare alle giostre in città da cui tutto arriva quando ce n’è bisogno. 
Per il resto non c’è nulla, tra le praterie e la steppa, anche le stelle sono semplici proiezioni sul soffitto di una sfera planetaria giocattolo, non c’è futuro (“è un paradosso, no? Conoscere il futuro lo rende inevitabile” dice il padre), solo lingue, dialetti ed espressioni vernacolari che si incrociano nel niente topografico tra le frequenze radio distorte e sovrapposte. 


L’esordio di Ilya Povolotsky, già documentarista, si rivela però più una soporifera dichiarazione d’amore a Sokurov, Tarkovskij e Béla Tarr che al cinema che sta cercando di fare, vorrebbe essere esperienziale e sensoriale, ma manca completamente di un impianto narrativo, tematico e persino percettivo che possa sostenerlo. Quello che con diversi gradi di sperimentazione riuscivano a fare invece magistralmente da Reygadas (con il suo perturbante Post Tenebras Lux) al recente A Russian Youth (qui recensito dal sottoscritto, la storia di un bambino-soldato troppo candido per la Prima Guerra Mondiale) fino all’italianissimo Una sterminata domenica (anti-narrativo al suo estremo), ma anche semplicemente quel Nomadland trionfatore degli Oscar che tutto ruotava attorno al disabitato umano errare. Grace risalta sicuramente per una fotografia affascinante e ammaliante, sommersa (più che immersa) tra i campi lunghi a camera fissa e i grandangoli materici in 16mm disallineati e disorientati, con cui la protagonista subisce silenziosamente la grandezza travolgente dell’infinito nulla attorno, rotto solo dalle imponenti pale eoliche che scendono roboanti sfiorando il terreno. Ma manca il resto, manca qualcosa per cui emozionarsi, qualcosa che vada oltre alle immagini estetizzate. 
Rimane un’istantanea, come le polaroid che la quindicenne scatta agli sconosciuti nel suo cammino desolato, manca il seguito, necessario.

 

Da Il Buio In Sala - Re­so­con­to del 41 To­ri­no Film Fe­sti­val (2023)