(presenti spoiler)
Un viaggio esperienziale (quasi espressionistico) dentro un uomo, un uomo che potrebbe essere chiunque di noi, dentro quello che potrebbe accadere (o che forse è già accaduto). Mentre tutto è amplificato, immagini e suoni, a parlare una lingua di suggestione paranoica, dove nulla è ciò che sembra, o meglio dove tutto è oltre a ciò che sembra (anche se con un finale che non sembra più soltanto, palesandosi invece in maniera fin troppo evidente).
Massimo Sisti è un tenero ometto dentista che sembra avere ricevuto tutto dalla vita: il lavoro perfetto, la famiglia perfetta, la casa perfetta. In quella villa dalle linee irregolari e discordanti che si riuniscono in ampi finestroni e in un'imponente scalinata d’ingresso che pare piuttosto uno scivolo di un parco acquatico abbandonato a se stesso. Una struttura che vuole gridare al mondo di essere grande come il coloratissimo sogno americano, ma è buttata lì in mezzo alla desolazione di una Latina salmastra immersa tra campi, palme e casolari dismessi. Una correlazione spaziale complementare, per certi versi, a quella di The Florida Project di Sean Baker, dove il colore pastello dell’apparenza nascondeva sotto di sé una profonda disperazione esistenziale (a cui avvicinarsi però con tenerezza ed empatia – come facciamo con Massimo), mentre vicino si stagliava Disneyland in tutta la sua grandiosità pacchiana.

Tutto è perfetto insomma, finché non si va in cantina. In quei luoghi che contengono tipicamente proprio noi stessi (seppur nascosti ed impolverati): gli scatoloni con i nostri ricordi, i vecchi oggetti ormai usurati ma a cui siamo troppo legati per buttarli via. Cantine che contengono le nostre abitudini, le riserve della nostra quotidianità (lampadine e cibo). Ma soprattutto cantine che in quel freddo e in quel buio tengono in vita come camere di ibernazione i nostri segreti più profondi. Su quei seminterrati Ulrich Seidl aveva fatto un film magnifico (Im Keller - In The Basement), uno dei suoi soliti caustici documentari ad illuminare la parte più oscura delle nostre vite (e anche i D’Innocenzo rifuggono in questo senso dal classico buio della cantina per accecare invece attraverso una luce iper-satura). Lì Seidl osservava (quasi voyeuristicamente) bizzarri sotterranei austriaci che rivelavano gli aspetti più profondi (e perturbanti) di apparenti normalissime persone che li possedevano. Una donna della Caritas e il suo masochismo più sfrenato, un suonatore di tuba dai nostalgici ideali (e cimeli) nazisti, una madre di finti (ma iper-reali) bambolotti da riporre nelle corrispettive scatole-culle. Dove la brutalità si vestiva di normalità.
Massimo in quella cantina tra tutta la spazzatura sparpagliata a terra trova invece qualcosa che non riesce a ricordare. Qualcosa che non riconosce come parte del Sé (a differenza di come fanno invece i personaggi grotteschi di Seidl). E così vuole capire, ma non ricorda. Non ricorda nulla. Cerca su internet eventuali correlazioni tra alcol e memoria. Eppure no, è impossibile (“Non sono stato io”).
Così pensa all’amico indebitato, il compagno di bevute di sempre. Quell’amico che gli chiede ingenti prestiti in denaro. Magari si è messo in mezzo ad un brutto giro. Lavorando in un concessionario potrebbe aver duplicato le chiavi di casa sua, ipotizza. Ma sicuramente saranno gli altri, sicuramente ci dovrà essere una spiegazione oltre (e al di fuori) del Sé. 
O magari il vecchio padre (“Ma che hai combinato?”), forse non più del tutto vigile. Ma comunque abituato a quei suoi pianti incontrollati che nel momento di apparente massimo controllo si liberano in tutta la loro fragilità. Quel padre che, capiamo, l’ha sempre rilegato in un angolo, in quei piccoli spazi che ora noi vediamo opprimenti nella sua grande e appariscente casa. Un padre ingombrante che gli chiede pure lui soldi (come l’amico), che lo conosce, ma l’ha forse completamente abbandonato a se stesso forgiandolo di fatto ad essere chi è ora (ma forse non chi crede di essere). Lì a curare i “dentini”, come gli dice.
O che sia ancora la sua famiglia, che lo vuole fregare, che lo vuole tirare (o fare) fuori. Eppure no, non è possibile, la moglie e le figlie lo amano così tanto nella loro purezza, quasi fossero creature angeliche rinascimentali, perfette e dolcissime, ammalianti, seppur inafferrabili, nel saperti sciogliere con uno solo semplicissimo sguardo.
E allora si continua a non ricordare, si continua a non capire. E si piange, ora per commozione, ora per disperazione. Come quel pianto riempitivo (e ricorrente) di France di Bruno Dumont. Piangere per tornare umani, mentre là fuori vacilla la propria immagine appariscente e maestosa (quella spettacolarizzata ed eccessiva che tutti vedono in televisione in France, quella quotidiana, ideale, eppure tenera e solitaria in America latina – con un’apparenza che appare ma che nessuno vede).
E così, come le lacrime scendono ininterrottamente a fiumi lungo il volto di Massimo, allo stesso modo vanno giù nel suo corpo continue gocce, giù come i farmaci, giù come gli alcolici. Ma sopra a Massimo in realtà la vita scorre parallela, orizzontale, non va mai davvero giù. Così quando è dentro alla doccia l’acqua scorre solo, passivamente, da sinistra a destra. Gli passa sopra, mai attraverso. Come i titoli di testa dell’inizio, che viaggiano, scorrono, in un movimento che non sale e non scende. Come il mondo fuori dal finestrino che è immobile eppure ci sembra in moto, impossibile da fermare o captare. Come un elicottero che nel suo moto roteatorio pare invece cadere in picchiata. Ma è percezione, distorta ed imperfetta.
Con forme che da reali si fanno rappresentate, non sappiamo di che cosa, di qualcosa certamente che fa paura. Una torta fumante che sembra finta, con una marmellata rossa quasi collosa, impregnante, irresistibile eppure nauseante, attraente eppure ripugnante come una mela avvelenata. In un mondo asettico come quello del dentista, abituato a toccare tutto con sterili guanti blu in lattice, senza mai sporcarsi, senza mai sentire la consistenza terrigna della sua vulnerabilità umana.

È un vuoto su cui è stato costruito un palazzo gigantesco, un universo però inconsistente che si staglia dove giù non è mai esistito niente, di fondamenta fragili ed incurvate come il suo corpo rannicchiato. E bisogna quindi scavare e scalfire, come togliere dai denti lo strato di smalto superficiale ormai non più sano, per farli tornare a risplendere in un sorriso bellissimo forse impossibile.
Massimo insomma riceve il mondo, con un’identità ormai in bilico ignorata e sacrificata per quell’immagine superficiale grandiosa che appare come l’appariscente casa al nostro primo incontro. 
Ma mentre si scava, giù e ancora più giù, mentre da un lato l’acqua ti scorre orizzontale sul viso, lineare ed imperturbabile, in quella cantina l’acqua sale e sale ancora, togliendo spazio e respiro, in quelle zone bonificate lì dove appunto esiste acqua anche al di sotto del livello del mare. Dove pure gli alberi crescono sopra, sopra le torrette, sopra i campi o le buche nel terreno. Mentre l’acqua torbida di una piscina trascurata e contaminata non viene più pulita, lì in stasi costante.
Servirà fare ordine tra quei pezzi, frammenti scissi come cocci riflettenti di un’epidermide smaltata che si sta appunto desquamando.
Che cosa è realtà e che cosa è costruzione? Che cosa è verità e cos’è sogno (nel senso di desiderio assoluto)? Se in Favolacce si metteva in dubbio l’affidabilità del narratore, qui ad essere poco affidabili non sono le parole, ma le immagini raccontate e filtrate da una voce interiore, che le riflette in un sussurro contro le pareti fragili di un corpo in via di distruzione.

La sua famiglia lo ama incondizionatamente. Ma per amare gli altri bisognerebbe innanzitutto amare se stessi. E in quei grandi finestroni non vedere più il mondo specchiarsi, ma il proprio riflesso. Dritto davanti a sé. Poter contemplare finalmente il controcampo di quel grande capo pelato che prima ha invaso la scena, vedere il davanti non della facciata, ma della propria anima lacerata. E come in Babadook potersi occuparsi dei mostri, in un modo o nell’altro.
Giochiamo ad essere grandi, ma in fondo siamo sempre in un immenso parco di divertimenti, di imponenti giostre ingannevoli, di dinosauri di plastica, di scalinate come scivoli d’acqua. Autentici come bambini, ma figli di quello che abbiamo vissuto in quanto adulti. Ma amare non è un gioco, amare non è un giro di giostra. Amare può essere una casa degli orrori. Se non sai vedere chi sei tu, e chi c’è allo specchio, nel tuo riflesso.
“Non è pazzia”. Solo umanità, fragile e vulnerabile all’ennesima potenza. Voler amare, poter amare.
Con quella forza salvifica di Another Round, che vince tutto, tenendoci su, a galla.
Ora con qualche punto di domanda in meno.
Lì dove forse l’acqua è finalmente arrivata al livello 0 del mare.
Vorrei che proteggessimo tutto questo