APPROFONDIMENTO SUL FILM 'A RUSSIAN YOUTH' (ALEXANDR ZOLOTUKHIN)

Come può reagire la purezza di un bambino all’orrore della guerra?
Come potrebbero percepirla i suoi sensi innocenti?
Un esordio russo importante, dove presente e passato si ricongiungono in una dimensione sensoriale ed orchestrale.
La storia di un bambino che vuole correre ed esplorare il mondo, in un contesto, come la Prima Guerra mondiale, dove bisogna invece stare fermi ed aspettare che sia il nemico il primo ad attaccare.
 


Non sono così pochi i registi nati sotto l’occhio magistrale di Aleksandr Sokurov, che in prima persona ha da sempre sostenuto i giovani autori, spesso producendo lui stesso le loro opere prime. Pensiamo al caso di Kantemir Balagov, che con soli due film (‘Tesnota’ e ‘Dylda’) ha già praticamente spiazzato a 28 anni intere filmografie di cineasti ormai affermati.
Ma c’è un altro giovane a cui dovremo sicuramente prestare attenzione: Alexander Zolotukhin, 31 anni. Un altro, come Balagov, che ha imparato ad interiorizzare gli insegnamenti del cinema russo passato e contemporaneo (di cui Sokurov è sicuramente un degno rappresentante), per partire e creare qualcosa di personale, nuovo ed inaspettato.
E questa sua opera prima di appena 72 minuti, ‘A Russian Youth’, ne è la testimonianza concreta.




Siamo nel vivo della Prima guerra mondiale. Alexey è un giovanissimo ragazzo. Quasi un bambino. Buttato in mezzo a quei campi di battaglia per servire l’Impero russo.
Ma Alexey di questo ne è contento.
E, fin dal nostro primo incontro con il suo viso innocente, rimaniamo ammaliati dal sentimento che lo pervade. Quello di diventare un grande soldato, utile alla patria nonostante la sua giovane età.
Lo affascinano le medaglie che vede sulle uniformi di chi lo circonda. Le loro forme e i loro colori. Le osserva, le contempla, vuole toccarle, per sentirle vere ed immaginare almeno per un momento di poterle possedere.
È un giovane, come tanti, pieno di sogni e di ideali, forse un po’ incoscienti e un po’ astratti, ma tanto profondamente veri da riuscire a motivarlo nel suo credo e nelle sue azioni.
Un sogno che vede nella guerra e nel corpo militare la principale opportunità della propria realizzazione personale.
Un sogno, che capiamo, non appartiene solo ad Alexey. E nemmeno solo ai giovani dei primi anni del Novecento.
Sono valori ideali radicati nella cultura russa, che superano epoche e guerre.
E non è un caso che al World Press Photo 2019 (il più importante premio di fotogiornalismo al mondo), nella sezione dei progetti fotografici a lungo termine, abbia vinto un lavoro della fotografa Sarah Blesener che si concentra proprio sull’ideologia e il credo militarista come punti di forza attuali di molti programmi di educazione per giovani russi (e americani) - vedi foto sotto.
I sogni del singolo rimandano così ad un immenso sogno collettivo, culturale, senza tempo, che lega indissolubilmente passato, presente e futuro.



E di questa inscindibile connessione parla ‘A Russian Youth’.
Alle vicende del giovane Alexey si intervallano infatti quelle di un’orchestra dei nostri giorni che sta eseguendo due opere monumentali di Rachmaninov.
Le indicazioni e gli appunti tecnici del direttore d’orchestra si fondono con gli ordini degli ufficiali al fronte. È un montaggio che da alternato si fa integrato. Suonare una tromba, un violino, così come muovere le mani sulla tastiera di un pianoforte sono tutte azioni che riprendono direttamente le equivalenti militari di 100 anni prima.
Ogni soldato è come uno strumento, con il suo timbro e la sua voce, che deve trovare la sua intonazione perfetta sovrapponendosi agli altri in un grande schema di armonia, in una dimensione percettiva e sensoriale che diventa, come si vedrà, il pilastro portante di tutto il film.
Tra le opere eseguite dall’orchestra spicca quel Concerto per pianoforte n. 3, il cosiddetto ‘Rach 3’, che tanto ha ossessionato per difficoltà la vita del pianista David Helffgott, interpretato da Geoffrey Rush nel meraviglioso ‘Shine’.
Un’opera pianistica di virtuosistica difficoltà tecnica, tanto da essere considerata una delle più impegnative mai realizzate.
La resistenza, il tempo, il limite sottile che separa la razionalità dell’esecuzione dall’immaterialità dell’ascolto diventano ponte tra la Russia che era e la Russia che è oggi.


La Storia, come tanto cinema contemporaneo ci ha ormai abituato, viene raccontata nella sua componente più soggettiva. La pura e semplice dimensione cronachistica ed impersonale lascia spazio invece ad un racconto intimo, dove il tempo del racconto è quello di chi c’era (o di chi ricorda). Zolotukhin rifugge così la freddezza di uno sguardo sintetico e completo sulla guerra, per affidare invece tutto all’emozione e ai sogni di un giovane che lì ha vissuto, ma che lì tutto ha percepito.
Da ‘Il figlio di Saul’ a ‘The Painted Bird’, così come le due grandissime opere già citate di Balagov. Ma anche i più affermati ‘Va' e vedi’ di Klimov, così come tutto il cinema di Sokurov stesso, di cui questo giovane autore (come si è detto) è stato allievo.
La dimensione esperienziale, vitale, materiale del cinema è esaltata all’ennesima potenza.



' Russian Youth diventa così un’esplorazione della guerra, senza tempo e senza spazio. Assoluta nella sua assenza di limiti e definizione.
Un mondo visto dai grandi e azzurri occhi innocenti di un giovane, capace forse di ritrovare il bello anche in qualcosa di profondamente brutto.
Quegli occhi scolpiti in un volto candido e così preciso nei tratti da sembrare un burattino. Un Pinocchio ai tempi della guerra. Che scopre il mondo con i suoi sensi ancora innocenti. Come il personaggio della giovane Matilde nell’italianissimo Freaks Out, pura e umana (seppur vista invece come la sua negazione) in un contesto come la Seconda Guerra Mondiale lì dove il fuoco brucia cadaveri invece che scaldare il cuore. Ma dove Matilde tiene tutto dentro, con una dolcezza che trasuda però persino dal suo volto imbronciato, Alexey osserva quel mondo e non può che farlo con stupore, esternando sempre quell’entusiasmo che lo riempie. Ridendo e sorridendo continuamente.
Sorride alle medaglie, agli altri soldati. Agli inviti a sparare per la prima volta. E persino agli scherzi che gli vengono fatti.
Sembra che quel giovane ami profondamente la vita, anche se il luogo in cui si trova si propone di distruggerla.
Alexey non riesce a stare fermo, vuole muoversi, saltare, sparare. Ha bisogno di alimentare quell’ideale che ha fisso nella mente.
Ma il suo desiderio di fare e scoprire deve scontrarsi con una guerra che sappiamo essere prevalentemente di posizione. Di trincea. Di attesa.
E non poter più fare.
Non poter più correre, né scoprire.

Quel volto da burattino sarà così presto danneggiato dalla guerra. Da un conflitto di logoramento, appunto.
E capiterà che, a causa di un gas tossico, Alexey perderà la vista.
E quei grandi occhi azzurri, con cui ha da sempre guardato, saranno sì sempre azzurri, ma forse non potranno più guardare ed esplorare.
Proprio lui che amava vederle le cose per la prima volta.
Proprio lui che amava scoprire il mondo con i suoi grandi occhi.
Ma gli altri sensi ci saranno ancora.
E attraverso essi potrà continuare ad esplorare. A sorridere. Ad essere giovane. Toccando ed ascoltando.
Il verso degli uccelli che volano nel cielo.
Le forme geometriche di illustri medaglie.
L’odore dei pasti e del fieno.
Tutto diventa sensoriale. Tutto diventa percezione. Distorta, fallace, effimera.
Ma profondamente reale e tangibile. In una dimensione senza tempo dove, come si è detto, presente e passato sono diretti interlocutori.

E diventerà ovviamente sensoriale anche la guerra stessa. Nel ruolo che assumerà Alexey per continuare ad assecondare il suo sogno militare.
Nel suo volersi sentire continuamente utile, protagonista autonomo di una guerra di figuranti. Nel suo voler essere sì un giovane russo, ma uno di quei giovani russi che bisogna ricordare.
Inizierà così ad adoperare uno strano e voluminoso macchinario metallico (di quelli che guardandolo potremmo subito a pensare ad un film di Roy Andersson), per sentire, amplificare e segnalare l’arrivo imminente di aerei nemici.
Un compito fondamentale e vitale associato, come fossimo in un’orchestra, a quel limite che si diceva tra immateriale ascolto e razionale esecuzione.

Il film stesso tecnicamente fonda tutta la sua estetica sulla percezione della visione, su un’immagine granulosa e sporca che diventa distorta, illusoria, contemporaneamente materiale nella sua decomposizione e astratta nella sua rappresentazione.
Siamo distanti dalla perfezione estetica e coreografica di ‘1917’ di Sam Mendes.
Qui invece sembra di vedere un dipinto, o meglio di vederne le fisiche ed imprecise pennellate cariche di colore.
I bordi sfocati e la vignettatura invadente obbligano a concentrarci su una piccola porzione dell’inquadratura, centrale e limitata, come i sensi del nostro piccolo protagonista.
Scelta che richiama quelle recenti di tanti film che di visione parlano: dal fuori campo di un lager ne ‘Il figlio di Saul’, ad un volto trapiantato nel polacco ‘Mug/Twarz’ o ancora nella visione pittorica di Van Gogh in ‘At Eternity’s Gate’.



Non vediamo (come Alexey), ma percepiamo. E quindi capiamo.
Siamo immersi in una dimensione sensoriale ed onirica, sospesa nel tempo e nello spazio. Tra il passato ed il presente.
Sembra un sogno, offuscato dalle maschere in trincea e ricoperto di fumo e pulviscolo, evanescente come quel gas che ha portato via la vista ad Alexey.
È un sogno di un passato, di una guerra, di una storia intera di un popolo.
È un sogno che non finisce, ma che si ripete sempre uguale a se stesso.  
Come quel giovane ragazzo sente quell’infinito mondo intorno, le cui molteplici manifestazioni creano frastuono, noi rimaniamo invasi dall’assoluta componente percettiva dell’immagine stessa.



Se, come detto, Alexey non potrà più vedere, potrà però ascoltare.
La musica della vita. Del cielo.
Attraverso quello strano ed ingombrante cappello di tubi metallici per amplificare i suoni, che pare uscito da un film di fantascienza.
Ma ad un certo punto il volo armonico di un uccello potrà trasformarsi nel boato di un aereo in picchiata.
E si arriverà troppo tardi a comunicare l’imminente bombardamento.
Come si potrà arrivare troppo tardi su una nota. Che diventerà sbagliata.
E si perderà il tempo, il ritmo, mandando in frantumi l’intero concerto.
Ma quel pezzo, quel ‘Rach3’ tanto difficile, si potrà rifare, da capo.
Ancora e ancora.
Questa volta non ci saranno errori. Solo musica.
Sospesa.
Per sempre.