Recensione di   Paolo Bonini Paolo Bonini

Il processo

(Film, 1962)

"Processo definitivo all'umanità"

"Non si sfugge alla macchina"
Gilles Deleuze, Felix Guattari, "Kafka. Per una letteratura minore"

A chi abbia frequentato assiduamente Kafka come il sottoscritto, può sembrare superfluo e inutile un film su di lui, ma poi una volta visto, "Il processo" di Orson Welles (1962), non dovrà che ricredersi.
Quest è il lavoro cinematografico migliore del regista americano, che riesce a restituirci la stessa tensione narrativa de' "Il terzo uomo" (1949) di Carol reed ma ad esso attribuito. La sensazione di essere braccati è in questo film onnipresente e perpetua sino alla catarsi finale, che ripropone una delle immagini care a Welles, e con la quae avrebbe dovuto concludersi il suo "Don Chisciotte" (1992) e cioé quella d'u'esplosione seguita dall'apparizione di un fungo nucleare.
Le scene della pellicola sono pervase da atmosfere barocche e soffocanti infatti compare quella sensazione d'horror vacui che si manifesta anche e soprattutto nell'aspetto e forma architettonica degli edifici, i cui interni delle scenografie sembrano crollare non solo sulle spalle di Anthony Perkins, ma franare anche addosso allo spettatore. Questo aspetto fa di quest'opera un vero e proprio gioiello neobarocco moderno.
Un appunto a parte è da dedicare in primo luogo alla recitazione di alcuni attori della pellicola che riescono a mantenere salda la tensione narrativa (di cui sopra) della vicenda grazie alla loro interpretazione, fattore che permette di apprezzare maggiormente
lo scioglimento finale della storia.
Partiamo innanzitutto da Perkins, la cui tendenza recitativa a mantenere dall'inizio alla fine del film un atteggiamento aggressivo e ribelle, permette di ben incentrare il lavoro su uno degli spetti fondamentali della poetica kafkiana, la vanità dell'azione.
Questa sensazione concreta viene poi avvalorata dalla disperazione d'ancorggio al protagonista da parte delle figure femminili le cui due principali sono interpretate da Jeanne Moreau e Romy Schneider nella parte di Leni, soffocante segretaria dell'avvocato di Josef K. Il femminile, nell'accezione più kafkiana, compare nella scena della visita da parte di Perkins al pittore Titorelli. Qui, il personaggio raffigurato come un uccello in gabbia, preda di gattacci che non gli lasciano tregua (le bambine che animano e abitano le scale), riprende quelle atmosfere barocche (di cui sopra) e quella sensazione di soffocamento restituite allo spettatore dall'onnipresente fastidioso vociare delle fanciulle che animano la scena.
Orson Welles stesso interpreta l'avvocato di K., abile burattinaio e attore lui stesso all'interno della trama e meccanismi del film, tanto da interpretare più ruoli, compreso quello della sua stessa professione.
Per concludere si tratta di un film definitivo, unilatrerale e finale, tanto da decretare il giudizio universale sull'uomo e sull'umanità intera, spazzando via il dubbio iniziale cn cui Josef K. si sveglia quella mattina - "Deve trattarsi si uno scherzo".