In questi ultimi tempi di pandemia e guerra, dunque anche di forte crisi economica, la retorica dell’american dream potrebbe sembrare alquanto stanca. Malgrado il periodo di relativa quiescenza,  è bene ricordare che per molto tempo essa ha prevalso incontrastata sia in patria che all’estero. In particolare, durante la guerra fredda i paesi sotto l’egida U.S.A. hanno pagato i foraggi del piano Marshall con l’asservimento ai diktat culturali d’oltreoceano. Il risultato? Un’ubriacatura globale i cui postumi tardano a svanire, mentre perdura uno stato di allucinazione normalizzata, dove il “dream” si lega inestricabilmente alla realtà, confondendosi con essa. Pertanto, se, come credo, l’intero film è una grande allegoria del sogno americano e del suo strascico di illusioni e promesse disattese, allora non poteva essere diverso da com’è: una sbornia a tutto schermo. Il linguaggio filmico sposa senza compromessi la logica lisergica dell’oggetto che rappresenta. Così la macchina da presa si muove freneticamente e assume le angolazioni più improbabili e anticonvenzionali, allo stesso tempo troviamo inquadrature brevissime e piani-sequenza. L’obiettivo è spaesare lo spettatore come fanno gli scaffali chilometrici dei supermarket, ricolmi di scintillanti confezioni che sembrano aggredirci, e l’intento è perfettamente riuscito. Svanito l’effimero luccichio dell’involucro, rimaniamo delusi dal contenuto, ossia da una realtà incapace di mantenere promesse tanto sfavillanti.  Per un attimo, forse, ci sentiamo schiavi dell’apparenza e il senso di vuoto ci assale, ma è qui che siamo di nuovo pronti, pronti un’altra dose. Paradossalmente, questa vita di montagne russe che ci sbalza senza sosta da un’esperienza all’altra è propedeutica alla stasi, al mantenimento dell’ordine sociale che fa rima con status quo: il receptionist dell’albergo conosce bene l’assurdità delle regole che segue e che lui stesso osteggiava, eppure le applica pedissequamente. C’è da aggiungere, infine, che se le prove del duo Depp-Del Toro risultano convincenti, lo stesso non si può dire di alcune scene un po’ prolisse, in cui c’è il sospetto che il regista si stia crogiolando nelle sue trovate bislacche, inserendole anche a discapito della fluidità del racconto. D’altronde Gilliam è così, vulcanico e poco incline al compromesso, prendere o lasciare. Io prendo: Paura e delirio a Las Vegas resta un film estremamente originale e di grande creatività artistica.