PINA MENICHELLI - LA BELLEZZA MUTA

Se parliamo di cinema muto, in Italia ci sono probabilmente nomi più noti di Pina Menichelli. Mi riferisco ad esempio a Francesca Bertini o Lyda Borelli ma Pina Menichelli incarna forse in modo più pieno la “diva” degli anni ‘10 dello scorso secolo e la figura della donna così come viene inserita nel contesto storico prima a ridosso e poi durante la Grande Guerra. Approcciarsi alla visione di un qualsiasi film muto presuppone la voglia di entrare in un mondo che ormai ci è quasi del tutto alieno per parametri stilistici ed estetici, sebbene ad esso si debba gran parte delle migliori produzioni successive. La recitazione, prendendo a riferimento il teatro ottocentesco, diventa per ovvie ragioni più calcata, quasi ad esasperare i sentimenti del personaggio secondo una rigida codifica. Bertini e Borelli, in modo del tutto magistrale, fondano il proprio successo sulla capacità di mostrare l’interiorità dei loro personaggi e sull’immedesimazione pressoché totale con essi, secondo l’ottica dell’attore non più mero “agente” ma “agìto”, non più interprete di un ruolo ma ruolo stesso. E questo ruolo è sempre quello della donna fatale dei cosiddetti “diva film”. 

 

Fiera, indomita, ribelle, vendicativa, diventa specchio perfetto e contraltare di una società oppressiva che pretende asservimento. Quasi sempre questo tipo di pellicola si conclude con la morte, la distruzione o addirittura il suicidio della protagonista, a simboleggiare l’aspro biasimo della morale dell’epoca che non lascia alcuna prospettiva a coloro che da essa si discostano. Menichelli si affranca da questo tipo di lettura sia dal punto di vista recitativo che da quello più propriamente strumentale e simbolico. L’attrice infatti si muove quasi sempre su un doppio piano di comunicazione. Deve mostrarsi (o meglio mostrare di sapersi mostrare) seduttiva, capace di smuovere a passione chiunque la incontri ma al contempo rimanendo inalterata, non scalfita dai sentimenti altrui. Solo lo spettatore è conscio della doppiezza e dell’aridità della protagonista sullo schermo. L’utilizzo del registro consueto di espressioni presupponeva fino a quel momento un’aderenza totale al sentire del personaggio interpretato. 

Le eroine di Menichelli invece dissimulano, mostrano ed esaltano sempre e solo ciò che non provano. Ed è qui, in questo sotto piano interpretativo, che Menichelli riesce a dare il meglio di sé. Carnale, sensuale, appassionata ma algida, razionale, determinata e votata alla distruzione. Distruzione che coinvolge chiunque tranne che se stessa. Le donne di Menichelli, esaltate soprattutto nei due film di Giovanni Pastrone “Il Fuoco” e “Tigre reale”, non trovano espiazione ma danno follia. Non soccombono ma danno la morte. La ribellione alla morale dell’epoca non produce più punizione ma trova il proprio sfogo nello spirito distruttivo della guerra. 

Ne “Il Fuoco” del 1916, Menichelli recita usando tutto il corpo: sinuoso e plastico, posa artistica, fermo immagine, più quadro che teatro, quasi contorto in alcune scene, a ribadire la “per-versione” letterale non tanto dell’azione in sé quanto dell’intenzione che quell’azione va a sottendere. Ma è nello sguardo, sul quale il regista insiste più volte, che questo spirito distorsivo viene fuori in tutta la sua potenza. La mimica esprime volutamente l’artificio. Menichelli recita una recita. Non è più la donna che cede alla sensualità ma è la sensualità femminile che diventa strumentale allo scopo, in un erotismo che coincide paradossalmente con la crudeltà e la mancanza di passione. Più volte censurato proprio per l’accusa di dissolutezza, il film di Pastrone non sembra perdere il proprio fascino nemmeno se osservato dopo più di un secolo proprio grazie alla recitazione muta di Menichelli, esaltata anche da un utilizzo pressoché perfetto delle luci. Il suo volto, il mento perennemente sollevato verso l’alto, la testa repentinamente buttata all’indietro quasi a rivelare una maschera nel suo spostarsi verso lo spettatore, i movimenti delle pupille, il sorriso a scoprire i denti come in un ghigno, in contrapposizione a pose volutamente estetizzanti, escono dai canoni e dagli stilemi dell’epoca e diventano qualcosa di nuovo. E di questo non possiamo che renderle merito anche ad un secolo di distanza. Nel 1999 il regista olandese Peter Delpeut presenta il suo film-documentario “Diva Dolorosa” nel quale si sottolinea come le grandi attrici del cinema muto, incarnando la figura di donne sessualmente liberate e muse della propria epoca decadente, abbiano pagato un pesante tributo sociale che le ha rese appunto delle dive “dolorose”. Pina Menichelli non poteva che essere scelta da Delpeut tra le protagoniste raccontate. Morì nel 1984 all’età di 94 anni.

di Francesca Arca