AN ELEPHANT SITTING STILL di Hu Bo

<< Bisogna rassegnarsi. Non c'è niente, da nessuna parte. >> Agota Kristof

Dicono che a Manzhouli ci sia un elefante che se ne sta seduto tutto il giorno.

An Elephant Sitting Still, film cinese del 2018, non è ambientato a Manzhouli, ma apre una parentesi di quarantott'ore nelle vite di quattro personaggi in un'altra città: un adolescente nei pasticci, una sua compagna di scuola, un malavitoso sfigato e un uomo di mezz'età il cui futuro non si prospetta affatto roseo: ma direi che questo vale anche per gli altri tre. Ecco però che il racconto dell'elefante seduto ricorre più volte e via via che i minuti passano e ci avviciniamo alla meta delle 3 ore e 40 di durata del film ci rendiamo conto che l'elefante seduto ha un ruolo tutt'altro che marginale nella pellicola, pur restando sempre lì, ai margini dell'intreccio narrativo, come un monolito pachidermico che attira a sé le speranze di quei quattro poveri cristi che pediniamo per quasi quattro ore. E in quattro ore di cose ne accadono...

Le amicizie si tradiscono, i grilletti scattano, gli adolescenti muoiono, fuggono, si impantanano in relazioni clandestine con adulti spregevoli, i genitori parlano ai figli come si parla ad un peso (e viceversa) e il passato diventa giusto un fardello del quale sbarazzarsi (emblematica la solitudine degli anziani nell'ospizio, a cui parrebbe destinato uno dei protagonisti)... Insomma, un campionario di avversità a dir poco desolante.

Ma anche se probabilmente non è giusto cercare di farsi un'idea anche solo spicciola e approssimativa di qualcuno che non c'è più per sua scelta attraverso il suo unico lungometraggio, per me è impossibile, mentre seguiamo da dietro le spalle questi quattro personaggi che sembrano senza futuro e senza speranza, che il pensiero non torni più volte a Hu Bo, il giovane regista morto suicida a soli 29 anni. E allora anche la speranza che attraversa la pellicola non sembra altro che un'illusione, un peccato d'ingenuità, un sogno ad occhi aperti dal quale era meglio non svegliarsi. O ancora, una frase fatta: "la speranza è l'ultima a morire". Così dicono. Ma volendo rispondergli, che conseguenze attendono coloro che le sopravvivono? Forse davvero, arrivati a quel punto, non resterebbe che spegnere la cinepresa, ultimare il montaggio della propria clamorosa opera unica e chiudersi alle spalle la porta che dava su quella vita, su quel sogno, su quella "landa desolata" che è il mondo: il piccolo mondo collettivo di ognuno di noi, la cui schiena e le cui spalle sono altrettanto incurvate da un peso così schiacciante ed estenuante, che è come se un elefante ci stesse seduto sopra.