La parola ai giurati

La nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e non solo il dubbio giova a scoprire il vero, ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere.

Così scrisse Giacomo Leopardi in una letta alla sorella Paolina. Il dubbio, faro che illumina il percorso verso la verità. Anzi, di più: il dubbio è la verità; e la verità il dubbio.
Il dubbio, centro focale dell'opera prima di Sidney Lumet. Il dubbio, motore dell'azione. Il dubbio, causa di screzi e tensioni.
Alle immagini formalmente ineccepibili, grazie all'egregio lavoro di Boris Kaufman come d.o.p. e alla regia elegante di Lumet, che spesso indugia in long takes i quali, se da un lato paiono una mera prova di bravura, dall'altro, ad un'occhiata più attenta, diventano, accanto al dubbio, quella causa di tensione che, nel corso dei poco più di 90 minuti, si insinua nella mente dello spettatore, si affianca una sceneggiatura formidabile.
Uno tsunami verbale (ma mai verboso) che pervade le orecchie del pubblico, punzecchiandolo con quel dubbio che quasi leopardianamente vuole avvicinarci alla verità. Ma noi, quella verità, nel film di Lumet non la sapremo mai. Arrivati ad un verdetto finale, i giurati escono da quella "prigione", quelle quattro mura cariche di acredine ed irruenza, ed il film finisce. Lumet e lo sceneggiatore Reginald Rose non ci lasciano la possibilità di disvelare ciò che più ci sta a cuore: al di là del verdetto, l'accusato è realmente colpevole o innocente?
Non lo sapremo mai perchè non è questo ciò su cui verte il film. La trama è solo un pretesto per lo svolgimento, il cosa lo è per il come. Non è importante la verità e nemmeno il verdetto. Ciò che importa è il dubbio, motore del nostro sapere.